Giulio Tremonti



Rassegna Stampa

- La Padania

Due grandi patti per riformare il Paese

Giulio Tremonti replica alle affermazioni di Umberto Bossi, che aveva lanciato al Parlamento di Vicenza una provocazione: guerra di liberazione del Nord perché il cambiamento reale è impossibile all'interno della logica bipolare.

«Tacere e rassegnarsi o reagire?», si domanda Umberto Bossi, spiegando così le sue criticate parole sulla "liberazione del Nord", giacché «non esiste più una via democratica per cambiare la Costituzione». Giulio Tramonti ci accoglie nel suo studio e, ancor prima che noi si apra bocca, inquadra il problema: «Io dico: tiremm innanz».

Sia più esplicito, professore... «Allora, cerchiamo di fare un'analisi insieme storica e politica della situazione, dato che sulla riforma della Costituzione un'analisi che non sia storica non può neppure essere politica. Guardiamo alla nostra storia costituzionale. Può essere divisa in due fasi, la prima va dalla Resistenza al 2001, la seconda dal 2001 fino a oggi».

Come si caratterizzò la prima fase? «La nostra Costituzione fu redatta sulla base dell'unità nazionale tra destra e sinistra, unità non solo all'interno dell'Assemblea costituente ma, in parallelo, anche all'interno di un Governo a sua volta di unità nazionale. È stato dopo la promulgazione della Costituzione che si è aperto il fronte dell'opposizione tra destra e sinistra. Escluse alcune riforme marginali, la Co-stituzione è poi rimasta invariata per decenni. Ci sono stati, a partire dagli anni Ottanta, alcuni tentativi di cambiamento radicale - la bicamerale Bozzi, la successiva De Mita-Jotti, l'ultima D'Alema - ma sono sempre falliti».

Dunque la Costituzione nasce come documento condiviso, ma successivamente non si è più stati in grado di stipulare un patto comune per riformarla. Perché? «Per varie ragioni. Credo anche a causa della scissione tra le bicamerali e i Governi. Era difficile che maggioranza e opposizione riuscissero a concordare qualcosa la mattina in bicamerale per poi scontrarsi in aula il pomeriggio. Nel caso della bicamerale D'Alema questa asimmetria fu radicalizzata dalle politica portata avanti nel Paese dal Governo Prodi. Per i partiti dell'opposizione - da Forza Italia alla Lega Nord - fu ciò a rendere insostenibile il doppio ruolo: la gente non lo poteva capire».

Certo, a causa della contrapposizione bipolare. Ma è proprio questo lo spirito del maggioritario e qui nasce l'attuale ragionamento di Bossi: con la logica maggioritaria è impossibile riformare il Paese... «Certamente questo è un punto che ci consente di ricostruire il termini sistematici le intuizioni di Bossi: bipolarismo esasperato dal maggioritario non solo non stabilizzava l'azione di Governo - tanto è vero che Prodi cadde subito dopo - ma spiazzava anche il lavoro costituente».

Arriviamo dunque a quella che lei ha definito la "seconda fase" della nostra storia costituzionale: anno 2001, riforma del Titolo V della Costituzione. «Cerchiamo di ricostruire in modo sistematico quello che è successo negli ultimi anni sul fronte delle riforme e per farlo parto dalla Devoluzione. Nella sua configurazione originaria la Devoluzione non era una deviazione dallo schema costituzionale del 1948. All'opposto ne era un'applicazione. Infatti nel testo del 1948 il catalogo delle competenze regionali non era chiuso, ma aperto. "Altre competenze potranno essere aggiunte", questo prevedeva espressamente la vecchia Costituzione, indicando proprio la strada della Devoluzione. Va in specie ricordato che la Devoluzione altro non era se non l'aggiunta di alcune competenze nuove alle competenze regionali di base. Dei contenuti particolari dell'istruzione, non del sistema unitario dell'istruzione stessa. Di alcune competenze sull'organizzazione sanitaria, non del diritto alla salute. Di alcune competenze sulla polizia territoriale, non dei principi sistemici dell'ordina-mento. Se ci fa caso i contenuti originari della Devoluzione, demonizzati strumentalmente in un passato ancora prossimo, coincidono ora con molte leggi approvate dalle Regioni di sinistra, con sentenze della Corte costituzionale, con tante voci che vengono proprio dalla sinistra».

Sta parlando anche dei sindaci-sceriffi? «Esattamente. Non mi sembra che siano voci eversive. Per inciso ricordo che nel testo del 1948, in un mondo allora prevalente-mente rurale, la competenza sulla polizia rurale era delle Regioni, alle quali era attri-buita dunque una prerogativa istituzionafe fortissima». Prima della Devoluzione c'è stata però la riforma del Titolo V della Costituzione, voluta dal centrosinistra. «Infatti il tragitto della Devoluzione - che prende forma politica propria con le Regionali del 2000, entrando a far parte del programma elettorale delle Regioni del Nord – si incrocia con quello del Titolo V».

Che giudizio dare ora di quest’ultimo? «La mia convinzione oggettiva è che il padre politico del Titolo V sia Umberto Bossi. La riforma del Titolo V è stata infatti la risposta alle istanze storiche della Lega Nord. Purtroppo è stata una risposta insufficiente tanto nel metodo quanto nel merito. Paradossalmente insufficiente per eccesso e per difetto».

Perché insufficiente nel metodo? «Il titolo V viene approvato grazie a un pugno di voti di maggioranza espressi da una Camera eletta con il metodo maggioritario e perdipiù in via di scioglimento. In questi termini la votazione sul Titolo V è stata la prima forzatura della prassi costituzionale».

Però lei dice che il Titolo V è insufficiente anche nel merito. «Nel merito ha due contenuti fondamentali positivi. Non solo derivano dalla visione politica di Bossi, ma in particolare derivano da due emendamenti che io stesso ho presentato alla bicamerale D’Alema».

Parliamone, dunque. «Il primo punto positivo è la previsione del numero chiuso delle competenze statali. Il resto alle Regioni. Lo Stato per sopravvivere deve smettere di voler fare tutto e concentrarsi invece sull’essenziale. Il secondo punto è relativo all’architettura finanziaria; nel vecchio sistema il principio era: le imposte sono dello Stato, che le trasferisce in parte alle Regioni. Nel nuovo sistema questo principio è rovesciato: le imposte sono delle Ragioni, che ne trasferiscono una parte allo Stato per garantire il funzionamento ed a titolo di soliderietà».

È il Federalismo fiscale. «Proprio così».

Ma se questi due contenuti erano positivi, perché la riforma del Titolo V è sbagliata anche nel merito? «Perché il primo emendamento relativo alla competenze – chi fa cosa, insomma – è stato realizzato in modo caotico. Sono state destrutturate le funzioni dello Stato senza che fosse attuato un vero Federalismo. Quanto al secondo emendamento, è invece entrato pienamente nella Costituzione – per verificarlo basta leggere bene l’art. 119, secondo comma, ultima parte – ma non è ancora stato attuato. Manca ancora un vero Federalismo fiscale, appunto».

Al caos del primo punto ha tentato di dare una risposta proprio la riforma del Governo Berlusconi. «La grande riforma voluta da Bossi all’interno del Governo Berlusconi è stata disegnata per superare l’impasse. Le competenza venogno riallineate, prende forma il Senato federale in paralleloal rafforzamento dei poteri del Governo».

Tutto spazzato via dal referendum confermativo del giugno 2006. «La campagna forsennata operata dalla sinistra contro la riforma costituzionale è stata un errore storico. Ha infatti immesso impropriamente la riforma costituzionale tra i materiali della propaganda elettorale. Non è che il testo della riforma fosse perfetto: niente lo è, tutto è perfettibile. Ma forze politiche responsabili avrebbero separato la campagna elettorale dalle riforme costituzionali e avrebbe accettato il nostro impegno a operare a valle le modifiche al testo considerate necessarie. Non è un caso che i commentatori più oggettivi e attenti al bene comune avessero allo suggerito proprio questa strada: ricordo Angelo Panebianco, Sergio Romano, Pietro Ostellino. L’avvertimento era: ora o mai più! Troppo alto il rischio di bruciare una chanche forse irripetibile di riforma costituzionale nella logica di una contrapposizione elettorale strumentale».

Ma non vi erano, a sinistra, anche idee oggettivamente diverse sulla riforma da operare? «Guardiamo adesso alle proposte di riforma costituzionale che vengono avanzate proprio dalla sinistra, da Luciano Violante o da Walter Veltroni: concordano sostanzialmente con i contenuti della nostra riforma, dalla riscrittura del catalogo delle competenze al Senato federale, dai poteri del Governo al Federalismo fiscale. Mi limito solo a notare, e con rammarico, che la responsabilità politica si manifesta anche nella coerente continuità delle idee; come è possibile che gli stessi politici che ora giudicano giusto uno schema di riforme lo considerassero sbagliato – o dicessero che era tale – appena un anno e mezzo fa?».

Professore, la sua analisi è chiara. Ma veniamo all’oggi: che fare ora? «Il paradosso di adesso è che sulle cose da fare per il bene comune è stato messo in crisi da interessi politici di parte; è ancora troppo forte l’impressione che tante posizioni sulle riforme costituzionali non siano ferme, che possano essere girevoli. La continuità ideale di Bossi si confronta con il rischio di una discontinuità strumentale da parte degli altri».

Anche la Cdl, per la verità, aveva chiesto il referendum contro la riforma del centro sinistra...«È vero, lo abbiamo chiesto ma poi non l’abbiamo fatto come battaglia politica del Paese. Abbiamo operato la scelta consapevole di abbandonare questa strada, sapendo che altrimenti avremmo creato i presupposti di una paralisi politica. Sapevamo infatti responsabilmente che ogni forzatura sul meccanismo referandario finisce con funzionare solo come una minoranza di blocco. Distruttiva e non costruttiva. La somma tra maggioritario parlamentare e minoritario di blocco esasperano e stringono come in una morsa i disegni di riforma costituzionale di cui abbiamo bisogno».

Domanda fondamentale: come uscirne? «Certamente non viviamo in un mondo ideale, ma non è questa una ragione sufficiente per rinunciare agli ideali. Un allineamento della nostra costituzione al tempo presente per me è necessario per il bene comune. Non parlo della prima parte della Costituzione, che integrata nell’Europa costituisce ancora un testo splendido; parlo della seconda parte, quella relativa al funzionamento delle istituzioni. Si è piantata e deve essere riformata».

In che modo? «Stando con coraggio e coerenza dentro il sistema, penso che i passaggi fondamentali siano: primo, una legge elettorale basata sulla logica proporzionale».

È il patto di Gemonio. «Per la nostra parte, sì. E penso che anche dall’altra parte ci sia un forte interesse al proporzionale».

Secondo? «L’attivazione reale del Federalismo fiscale, non quello fasullo delle addizionali, ma il princio costituzionale radicalmente innovativo introdotto con il Titolo V della costituzione vigente».

Ma il Federalismo fiscale non potevate attuarlo voi, quando eravate al Governo? «Non abbiamo potuto attuarlo, perché la grande stagnazione economica arrivata su tutta l’Europa continentale a partire dal 2001 ci ha imposto politiche di biliancio fortemente conservative e ci ha precluso l’avvio di un percorso di riforma strutturale».

Oggi la situazione è mutata? «Guardando le cose in base all’esperienza maturata, è l’esperienza stessa che ci indica una strada diversa. Lo squilibrio strutturale della nostra finanza pubblica si sviluppa come segue:  l’attivo pubblico è più grande del passivo. Ma mentre quest’ultimo è tutto espresso in titoli di debito pubblico collocati sul mercato, una parte consistente dell’attivo è ancora fuori mercato. Non solo. Il potere/dovere fiscale è quasi tutto dello Stato, mentre la parte più dinamica della spesa – dalla sanità alle pensioni di invalidità – è di competenza regionale. Dato che la criticità di base della nostra finanza pubblica è il debito, solo un arbitraggio tra Stato ed enti locali, che hanno la parte più grossa dell’attivo pubblico vendibile ma non hanno potere fiscale proprio, può costituire non un fattore di rischio, ma all’opposto un principio di soluzione del problema. Il altri termini, il Federalismo fiscale non è un rischio, ma una soluzione. È proprio questo, l’arbitraggio tra beni pubblici da immettere sul mercato – a vantaggio dell’economia dei territori – ed il Federalismo fiscale, che era parte costitutiva del nostro programma elettorale del 2006».

Dunque lei propone un patto: gli enti locali alienino parte del proprio grande patrimonio per ridurre il debito pubblico e in cambio ottengono il Federalismo fiscale. «Basterebbe mobilizzare in questo disegno una parte dell’attivo per abbattare una parte consisente del debito pubblico. In cambio, i Governi locali avrebbero appunto il Federalismo fiscale e proprio attraverso il controllo democratico diretto esercitato dai cittadini la spesa pubblica potrebbe prendere un corso più serio».

È un bel disegno. Serve, però, la volontà politica. «Serve un secondo patto. Credo che batta l’ora delle elezioni. Credo però anche che il giorno dopo, se ci sarà buona e non cattiva volontà, si aprirà finalmente lo spazio per una politica responsabile, con l’obiettivo del bene comune. Se le idee che Violante e Veltroni ora esprimono con convinzione, idee di riforma che sono molto vicine a quelle di Umberto Bossi, restano ferme e non sono di nuovo influenzate e ribaltate dalla campgna elettorale, una prospettiva di cambiamento sarà possibile. In sintesi, la riforma costituzionale è più importante della campagna elettorale. Forse il patto può essere questo: un patto di coerenza».