Il Ddl Omnibus minaccia il diritto alla difesa fiscale
I regimi politici si impongono anche saturando gli spazi giuridici. Parte essenziale e caratteristica dei processi politici di questo tipo è la riduzione forte dei diritti dei cittadini, operata con l’incremento simmetrico dei poteri della burocrazia. È in questo modo infatti che la politica, controllando la burocrazia, controlla i cittadini.
Nella fase iniziale, il processo di costruzione di un regime si manifesta nella «piccola legislazione»: ha forme minori, marginali, apparentemente casuali, sparse all'interno del vecchio ordinamento. È solo alla fine, nella sua forma trionfale, che il regime si riordina nella grande legislazione», fatta per celebrarne sul piano giuridico, il trionfo politico. ln Italia, le possibilità di esemplificare questo proposito sono (purtroppo) numerosissime. L’esempio più recente cronologicamente e — va aggiunto — più rivoltante, moralmente, è offerto dall'articolo 24, primo comma, dell'attuale versione del disegno di legge «Omnibus». Si tratta di una norma che emerge dal nume melmoso della «nuova» legislazione fiscale, in particolare, si tratta di una norma già proposta dal Governo, poi stralciata in sede di discussione parlamentare, ma ora nuovamente riproposta. Ciò appunto a riprova del carattere sistematico del sottostante disegno politico. ll testo della norma è il seguente: «All’articolo 32 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e aggiunto, infine, il seguente comma: «Le notizie e i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri e i registri non esibiti o non trasmessi, in risposta agli inviti dell’ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai danni dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa. Di ciò l’ufficio deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta». Come è in specie evidente, questa norma, creando una totale preclusione alla somministrazione ed all'utilizzo delle prove in giudizio, riduce drasticamente un diritto costituzionale e fondamentale del cittadino: il diritto alla difesa in giudizio contro il fisco, in particolare, la nuova norma è in contrasto con l’articolo 24, secondo comma, della Costituzione, secondo cui: «La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento». E poi con l'articolo 113, primo comma, della stessa Costituzione, secondo cui: «Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa». ln realtà occorre distinguere, tra preclusione amministrativa e preclusione giudiziaria. La preclusione amministrativa è politicamente discutibile, ma può anche essere costituzionalmente legittima. La preclusione giudiziaria è invece, insieme, politicamente inaccettabile e costituzionalmente illegittima. Nei seguenti termini. l'ossessione del primato burocratico può anche spingere l’interesse «fiscale» fino all'estremo di fare prevalere la forma sulla sostanza, a far prevalere l’interesse procedurale alla «efficienza» della macchina burocratica sull'interesse ideale all’accertamento della verità sostanziale, per chi scrive, la scelta di introdurre una nuova fortissima preclusione amministrativa è in se una scelta politicamente sbagliata. Sbagliata, perché contraria alla logica liberale del rapporto fiscale, per cui l'interesse dello Stato non è l'acquisizione indiscriminata di «denaro», ma solo interesse all’applicazione della «giusta imposta». ln realtà, un cittadino, non necessariamente un «evasore», può benissimo trovarsi nella situazione di non avere, al tempo «i» la la disponibilità di un dato documento; di aveme la disponibilità solo in fase successiva, al tempo «i + 1». Magari solo per forza maggiore, senza colpa, dolo o frode. L’applicazione della preclusione amministrativa, rendendo indeducibili costi ed oneri effettivi, solo perche temporaneamente non documentabili, produce invece una materia imponibile artificiale. ln questo modo si pagano infatti le tasse, non perché da un reddito, ma perché in un dato momento, arbitrariamente fissato dal legislatore, non c’è un documento. Se questo emerge dopo e fuori dal luogo procedimentale «rituale», è come se non ci fosse. E così che, azzerando il diritto alla «giusta imposta», si segna il primato del formalismo procedurale e del potere «fiscale» sulla giustizia. Se la preclusione amministrativa è, in questi termini, politicamente discutibile, la scelta di estenderla al piano giudiziario è invece — si ripete — incostituzionale. L'interesse «fiscale» non può infatti mai comprimere il diritto alla tutela in giudizio contro gli atti del fisco. Un'ultima nota. Non è, questo, solo un caso di meccanica dei poteri che premono sui diritti. Sullo sfondo si nota un tratto inquietante, di carattere per così dire antropologico; ne emerge quella che si direbbe una paranoia «democratica». Si legga, nel testo della norma, l'inciso iniziale: «Di ciò (alias della compressione del diritto alla difesa) l’ufficio deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta». Qui l’ipocrisia scorre nella beffa, la «guarentigia» della minaccia. ll diritto del cittadino viene infatti compresso, ma si pretende di farlo in forma trasparente e «democratica», «politically correct». Come nel caso della firma della dichiarazione dei redditi, che da un lato è obbligatoria, dall'altro lato vale «ope legis» da consenso - rinunzia alla privacy, anche qui l'abuso si veste di legalità. La «tutela» concessa alla vittima. la ricerca del suo «consenso» sono, in realtà, i tratti caratteristici del dispotismo peggiore: il dispotismo «benevolo». praticato «legalmeme», a beneticio della vittima, in conclusione: per quale ragione, se non per l’ideologia negativa ed immorale del potere assoluto, il governo scrive e fa votare una legge radicalmente incostituzionale? È questo un caso in cui il Parlamento italiano potrebbe dimostrare di essere un Parlamento. E non solo la sede, timorosa e passiva, di ratifica dei testi dell’esecutivo.