I passi falsi della riforma di Visco
Il paradosso di un sistema che tende a «dimenticare» la progressività impositiva
La progressività dell’imposizione è ormai solo la figlia di un dio minore? L’Irpef può davvero essere trasformata in un’imposta specifica sul lavoro (e sulle pensioni), l’esatto opposto del suo modello morale, ideale e politico? Il Governo è impegnato a pianificare tutto questo, con la sistematica esclusione della base imponibile dell’imposta personale di tutti gli altri tipi di reddito. Dei redditi di capitale, soggetti ad aliquota proporzionale basica e minima del 12,5 per cento. Dei redditi d’impresa, via Dit a regime (è vero che, in concreto, la Dit – applicata in ragione di un’aliquota proporzionale che val dal 19% al 27% - non pare destinata a funzionare, ma questo “accidente” non influisce sulla “sostanza” della scelta politica sottostante). Infine, dei redditi immobiliari, via ipotesi di “riforma” della fiscalità immobiliare (annunciata in ragione di un’aliquota proporzionale del 19%).
Per contro le aliquote dell’Irpef che insiste solo sul lavoro (e pensioni) sono: 19% (fino a 15 milioni); 27% (tra 15 e 30 milioni); 34% (tra 30 e 60 milioni); 40% (tra 60 e 135 milioni); 46% (oltre 135 milioni).
La scelta che emerge da questo disegno politico può essere così sintetizzata: i redditi fondati sul capitale possono scontare un’imposta proporzionale abbattuta; i redditi prodotti dal lavoro devono invece scontare un’imposta elevata sulla scala della progressività.
L’equità dell’architettura è dunque evidente nel fatto che sul più grande reddito da capitale insiste un’aliquota minore di quella che insiste sul più piccolo reddito da lavoro (o pensione). Appunto il contromodello, rispetto al modello ideale originario, storico e politico, originario dell’imposizione personale progressiva, che doveva (deve) insistere su tutti i redditi e soprattutto sui redditi fondati sul capitale.
Gli atti della Costituente sono fortemente indicativi (e suggestivi) in ordine al percorso ideale che ha portato all’introduzione nell’ordinamento italiano del principio di progressività dell’imposizione fiscale. Il prodotto politico finale è stato l’articolo 53, della Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività».
Questo è il punto politico centrale; a Costituzione vigente, che senso hanno ancora in generale il criterio della capacità contributiva e, in particolare, il criterio di progressività dell’imposizione fiscale? Quale forma possono (devono) ancora avere gli antichi ideali di giustizia? In che senso è (piò ancora essere) “costituzionale” una riforma fiscale? Mi sia consentito iniziare questa riflessione con un flashback. Il 18 dicembre 1994 fu pubblicato e diffuso, tra l’altro in forma di supplemente al Sole-24 Ore, il mio «Libro bianco» sulla riforma fiscale in Italia. Un volume che sintetizza un lungo ciclo di sutdi, fatti insieme con Giuseppe Vitaletti, e rappresentava tra l’altro il tentativo di modernizzare la fiscalità di uno Stato-nazione, dopo l’avvento dell’economia-mondo. All’essenziale, i principi ispiratori di quell’(ipotesi di) riforma fiscale erano:
- Dal complesso al semplice: otto tasse, un codice fiscale. Ciò perché se le strutture dell’esistente si complicano, le strutture giuridiche devono andare in controtendenza, verso la concentrazione e la semplificazione:
- Dalle persone alle cose: erosa la sua base di potere originaria (il dominio territoriale chiuso, esercitato sulla ricchezza dallo Stato-nazione), l’imposta personale progressiva, se applicata tel quel, finisce per produrre effetti sostanziali opposti rispetto a quelli ideali. In specie, la ricchezza “affluente” sfugge, perché mobile. E perciò, la progressività classica finisce per insistere regressivamente sui fattori immobili (salari, pensioni, eccetera). In questo scenario, la progressività principio morale fondamentale e costituzionale, non può essere rimossa tout court. Va piuttosto ricostruita, in altre forme, tendenzialmente spostando l’asse del prelievo su altri punti di rilievo (i consumi, i patrimoni, più genericamente “le cose”), in modo da produrre effetti equivalenti o analoghi rispetto a quelli prodotti dalla progressività, nella sua forma originaria;
- Dal centro alla periferia: un federalismo fiscale basato sul principio politico del budget, con i cittadini che, nei vari livelli in cui si articola l’attività di governo, non più centralizzata in forma monopolistica, possono votare direttamente e congiuntamente su entrate e uscite.
Le reazioni furono diverse. Positiva, e per me straordinariamente significativa, fu ad esempio quella del professor Carlo M. Cipolla. Mi permetto solo ora di citare un passo, da una sua lettera del 21 dicembre 1994: «Questa lettera è, e vuole essere, una nota di incondiziata ammirazione e approvazione per il piano da Lei presentato per la riforma del sistema e del regime fiscale in Italia. Trovo ammirevole non soltanto l’aspetto tecnico del Suo piano, ma anche il coraggio da Lei dimostrato, nel presentare il piano stesso, così drastico, rivoluzionario».
Negativa, e pure importante, fu invece la reazione di molti studiosi della materia. Particolarmente negativa fu poi lacreazione dell’onorevole Vincenzo Visco. Dai suoi interventi di allora, in particolare da quelli apparsi sulla Repubblica, 20 dicembre 1994 (ma ancora più ampi riscontri si trovano sull’Unità, nei numeri dell’ultima decade del dicembre 1994), estraggo questi passi essenziali:
- «non facciamo proposte propagandistiche di modo che da cento le tasse diventeranno otto, perché non sono cento e non saranno mai otto»;
- Con il «Libro bianco», in sostanza «si svuota ulteriormente la base imponibile dell’Irpef, sottraendole i redditi da fabbricati e i redditi da partecipazione, sicché l’Irpef diventa sempre più un imposta sui soli redditi di lavoro, gli unici assoggettati a progressività».
Il curiosum non consiste tanto nella critica, allora legittimamente formulata, quanto nel successivo e diverso corso di pensiero-azione, seguito dall’opposizione passata al governo. Alcuni punti, all’interno di questo percorso, si segnalano per essere oggettivamente divertenti. Ad esempio, la dichiarazione programmatica fatta dal ministro delle Finanze nella sua prima audizione parlamentare, così testualmente espressa: «Riduzione del numero delle imposte: non più di 7-10 imposte principali tra erariali, regionali e comunali» (sic).
Qui l’attenzione va, piuttosto e più seriamente, concentrata sulla questione della progressività dell’imposizione personale. Questione che, si ripete, è tanto politicamente attuale e moralmente cruciale.
Si rivendica l’esistenza, alla base della “riforma” fiscale attuale, di un lungo percorso preparatorio, espresso in studi, in disegni di legge, in articoli di giornale. È vero. Particolarmente significativo, a questo proposito, mi pare essere il passo che segue «Estensione delle base imponibili, razionalizzazioned ella tassazione dei redditi da capitale, con la tendenza o alla parificazione delle aliquote o all’inserimento nella base imponibile dell’imposta personale. Il risultato di tale operazione sareb evidentemente quello di pervenire a un sistema impositivo più razionale e meno distorsivo, a parità di gettito e con più elevata progressività (nonostante la riduzione delle aliquote)» (così Vincenzo Visco, sulla Repubblica del 20 dicembre 1987).
Rispetto a questa originaria, e oggettivamente coerente, linea di pensiero, i successivi sviluppi e comunque la linea di azione del Governo in carica si sono invece piegati ad “u”. Vedere condivise spesso fatte proprie se pure attraverso percorsi tortuosi ed episodi di cannibalismo culturale, idee e ipotesi, tesi e proposte, un tempo contrastate, nel quasi totale vuoto culturale, con violenta scientifica convizione da parte di sette “studiosi” o da parte di politici è ora – e non può che essere – ragione di soddisfazione, tanto intellettuale quanto politica. Le idee valgono, se circolano.
Ma con alcune riserve. In molti casi lo shopping delle idee è stato, e va onestamente riconosciuto, positivo. Le possibilità di esemplificare a questo proposito sono consistenti. Così, ad esempio, nel caso delle nuove forme di tassazione per masse del risparmio gestito. Il risparmio gesitto viene così fiscalmente trattato come stock patrimoniale e duqneu come una “cosa”. Salvo quanto si noterà qui di seguito, a proposito dell’esigenza di configurare questa tecnica di imposizione come un incentivo e non come un regime. Così, ancora, nel caso del “concordato”, della “conciliazione” o degli “studi di settore”. Istituti, questi, che possono essere davvero efficaci, come mezzi empirici efficienti nella gestione del rapporto fiscale. Si tratta di idee che, all’inizio, sono state demonizzate, in quanto definite regressive o bollate come “corporative” (ometto, su tutti questi punti, e per brevità, le specifiche, tanto sui tempi delle mie proposte, quanto sulle fonti “critiche”). Ma che poi (bene o male) sono state realizzate, nell’interesse del Paese. Restano tuttavia completamente fuori da questo circuito le idee di materia di progressività. Qui le applicazioni fatte dal Governo mi sembrano invece negative, perché fondamentaliste (di destra) e troppo radicali. Soprattutto, perché fuori dalla lettera e dallo spirito della nostra Costituzione. A questo proposito e per ora solo in prima approssimazione, dato che ancora non si conosce il testo finale della ipotesi di riforma in corso in materia di fiscalità immobiliare, mi permetto di notare quanto segue:
- La crisi della progressività non è causata dalla Dit ma, più al fondo, dalla diversa struttura reale della ricchezza. Come si è già notato, questa è, insieme, la ragione e la causa di una riforma che deve conservare il principio politico fondamentale della progressività, ma spostando l’asse del prelievo su altri punti di prelievo, ancora indicativi di capacità contributiva. Si tratta di un esercizio molto difficile, ma necessario. A titoli indicativo, in materia di imposizione sull’attività di imprese, meglio della coppia Irpeg-Dit, che si esaurisce, che si esaurisce nella formula dell’imposizione proporzionale, mi pare fosse (sia) la coppia (ipotizzata nel «Libro bianco») Irpeg-imposta patrimoniale (insistente sul netto contabile). Un tipo di imposta, quest’ultimo, che sembra essere più incisivamente rappresentativo della effettiva capacità contributiva espressa dagli asset d’impresa. In sintesi, la “riforma” governativa, in parte già realizzata, in parte solo ipotizzata, mi pae invece essenzialmente demolitoria. Assente ogni tentativo di “ricostruire” in altre forme, effetti analoghi a quelli originari della progressività. Una azione di illegittimità costituzionale è, a questo punto, non solo possibile, doverosa. Ed è quanto si sta preparando.
- L’incentivo a favore del risparmio gestito non doveva comunque, e non può, giustificare la radicale rimozione del principio dell’imposizione personale progressiva sui redditi di capitale. L’imposizione proporzionale su questa tipologia di redditi doveva e poteva essere appunto solo un incentivo. In particolare, nel «Libro bianco» si conservavano, sia pure in forma alternativa, numerose ipotesi di imposizione personale progressiva sui redditi da capitale (la proporzionale essendo appunto prevista solo come un incentivo all’investimento del capitale nelle forme più controllabile e più “meritevoli”).
- Non si capisce (ma certamente lo capiscono i sedicenti comunisti) perché una piccola pensione debba scontare l’imposta personale progressiva, mentre la decima casa di un proprietario può scontare l’imposta proporzionale. Nel «Libro bianco», la progressività per età escludeva da imposta personale progressiva gli anziani non ricchi e la prima casa era completamente detassata (con effeto di progressività, ottenuto per abbatimento, all’interno dell’ipotizzato tributo locale immobiliare).
- Non è chiaro, in generale il nuovo meccanismo di fiscalità immobiliare (per ora si leggono solo confuse dichiarazioni, a proposito di redditi immobiliari, ma anche a proposito di valori patrimoniali). E non sono chiari, in particolare, i criteri di determinazione dei nuoi valori catastali (in specie: permane ancora l’idea di estendere la tassazione anche ai muri di casa?).
Per questo mi sembra abbastanza consistente il rischio che la nuova ipotesi di “riforma” prospetti e sfrutti la “proporzionalità”, ma solo come esca, così definitivamente sacrificando un principio fondamentale al semplice fine di operare un ulteriore ingiustificato incremento della pressione fiscale.