Giulio Tremonti



Rassegna Stampa

- Avvenire

Tremonti: «Evasori attenti: il segreto bancario è finito»

Tremonti parla per spiegare una svolta in cui crede. Un’accelerazione inevitabile. Si affida all’ultimo ricordo storico per rimarcare le difficoltà legate alla lotta all’evasione e per dichiarare guerra all’idea di un nuovo super condono tombale su cui arriva la netta frenata di Palazzo Chigi.

«Non basta più reprimere, d’autorità, l’evasione fiscale. La vera scommessa, forse la vera sfida, è prevenirla, facendo leva sulla convenienza a non rischiare e soprattutto sulla coscienza del dovere di pagare». Giulio Tremonti si sistema sulla poltrona e "regala" un primo pensiero quasi filosofico: «Ciò che va fatto è chiudere l’asimmetria tra l’essere legale e il doverlo essere». Siamo nella roccaforte dell’Economia, a via XX Settembre, a colloquio con un ministro evidentemente attento al quadro italiano ed europeo, ma oggi deciso a concentrare la riflessione su un unico punto: il salto di efficienza nel contrasto all’evasione fiscale. O, meglio, i nuovi mezzi scelti per combatterla. Giulio Tremonti riflette per qualche secondo. Poi comincia a spiegare la forza di un impegno destinato a crescere. «Se oggi le entrate derivanti dal contrasto all’evasione crescono via via, tuttavia è l’ethos fiscale a essere ancora troppo debole». È solo una frase sussurrata. Il ministro punta il dito su una serie di tabelle e avverte: «Guardi, nel 2010 sono stati recuperati 25 miliardi, in termini di cassa. È un dato oggettivo, ed è una cifra colossale».

Tremonti parla per quasi due ore. Per spiegare una svolta in cui crede. Un’accelerazione inevitabile. Poi, sulla porta dell’ufficio, si affida all’ultimo ricordo storico per rimarcare le difficoltà legate alla lotta all’evasione e per dichiarare guerra all’idea di un nuovo super condono tombale su cui arriva anche la netta frenata di Palazzo Chigi. Tremonti parla di Ezio Vanoni, grande ministro delle Finanze del passato, professore a Pavia. Lui non abbassò le aliquote dei redditi più alti, non abolì l’imposta di successione, non legò la stabilità del bilancio al gettito illusorio di una sanatoria e allo smobilizzo del patrimonio immobiliare. E soprattutto non premiò i " furbi" con condoni. Già, il condono. Il ministro fa un gesto netto con la mano. E lascia cadere le parole una a una: «Vorrebbe dire frenare sul nascere il progetto di contrasto all’evasione fiscale, sarebbe un togliere forza al nostro vero obiettivo. Finora le entrate da lotta all’evasione fiscale e contributiva sono servite sistematicamente per finanziare la spesa pubblica: sanità, pensioni, assistenza... Il condono minaccia però l’afflusso di queste entrate negli anni a venire, che finirebbero per cancellarsi. E, così facendo, alla fine ci troveremmo con un maggior deficit».

È un colloquio che a tratti si fa monologo "alto", quasi una "lezione" universitaria. Tremonti non vuole parlare di un possibile concordato con la Svizzera sui capitali italiani depositati nelle banche locali, non vuole spiegare il senso del tormentato decreto per lo sviluppo. E non vuole svelare le "sue" verità sullo stato dei rapporti con Silvio Berlusconi e soffermarsi sui ripetuti tagli al nostro raiting. Preferisce conversare sull’Italia che sogna e su quella che c’è. «Un Paese, almeno in certe fasce, ancora ostaggio dell’evasione, dell’illegalità, della criminalità. Ma <+corsivo>no taxation without representation<+tondo>», scandisce il ministro dell’Economia arrivando in fretta al punto: «Uno Stato "assente" produce irresponsabilità, amoralità, evasione fiscale. Ed è il Sud che soffre di più per questo». Tremonti mostra consapevolezza sulla necessità di un cambio di passo. E la lotta all’evasione non può che essere un punto di partenza.

«La gente capirà», torna a dire, spiegando che esiste anche una «logica premiale» dietro una mano sempre più ferma: «Più recuperiamo risorse dalla lotta all’evasione, più avremo spazi per ridurre le imposte». Ora però è il momento di spiegare il Progetto. E per farlo il ministro ripete un concetto già scandito. «Non basta più reprimere, non basta più l’intenso ed efficace lavoro che viene fatto, tanto dall’Agenzia delle Entrate, quanto dalla Guardia di Finanza. Certo è necessario tutto questo, ma non è sufficiente, tenendo conto della nostra "geografia" economica e della nostra storia politica. E allora è arrivato il momento di cambiare registro e di scommettere con decisione sulla prevenzione». Tremonti usa un’immagine che aiuta a capire la forza della svolta impressa dal governo, e dal suo ministero, all’impegno per allargare – «secondo giustizia» – la platea dei contribuenti: «I tavoli a due gambe traballano; bisognava aggiungerne altre due.

Ecco quello che si è deciso di fare: un tavolo a quattro gambe». Tremonti ci osserva prima di spiegare con parole nette quell’immagine: accanto ad Entrate e Fiamme Gialle, «dobbiamo usare di più le banche e i Comuni. Abbiamo, cioè, deciso di coinvolgere i Comuni nel controllo del territorio anche per questo aspetto vitale. E, soprattutto, di usare meglio i dati degli istituti di credito e di ridurre davvero il segreto bancario, come succede nel resto d’Europa». All’improvviso il linguaggio di Tremonti si fa semplice e diretto. Quasi insolito, nella concretezza del messaggio.

«L’accertamento non basta. Se si vuole ridurre l’evasione, dobbiamo trasmettere un messaggio non poliziesco; ma sociale, di deterrenza». Il ministro, insomma, è davvero convinto che solo «aggiungendo alla repressione la prevenzione sarà possibile intensificare significativamente il contrasto all’evasione fiscale». Perché «l’evasione fiscale, un male che piega il nostro Paese, è un male storico e radicato, un male mai davvero venuto meno, dai tempi dell’unità d’Italia».
C’è un’idea del dovere fiscale ancora troppo "lontana". Anche dal territorio.

«Gli uffici fiscali e le caserme della Guardia di finanza, sono infatti troppo remoti, tutti naturalmente collocati nei centri medio-grandi. Per contro abbiamo 8mila Comuni e 4 milioni di partite Iva sparse sul territorio. Data questa geografia economica, quella del dovere fiscale è un’idea lontana dai portafogli degli italiani. E di riflesso è un’idea lontana dalle coscienze degli italiani». Se si vuole, usando un "linguaggio di mercato", «evadere è oggi il migliore investimento possibile. Garantisce come minimo un rendimento immediato del 40 per cento. Un rendimento che non trovi da nessuna altra parte». E allora? «Allora rendiamoci conto che c’è anche un altro metodo da sviluppare. Che non è "poliziesco", ma morale e culturale. Si tratta di lavorare sulle coscienze e sulle teste. Di capire tutti insieme che così non si può andare avanti. L’interesse generale non è la somma degli interessi particolari».

Il ministro mostra un fascicolo carico di pagine. Contiene dati storici e dati inediti sull’evasione. Numeri, cifre, percentuali, statistiche che testimoniano la forza del «contrasto». Sul primo foglio leggiamo un titolo in corsivo: Ricostruire dalle rovine. Dentro c’è la relazione di Antonio Pesenti (professore di Pavia, incarcerato dal fascismo, ministro di sinistra nel secondo Governo Bonomi) a un Consiglio dei ministri nel marzo 1945.

Tremonti legge quasi meccanicamente, come se conoscesse quel testo a memoria. «Non è un mistero che il nostro sistema di accertamento è sempre stato difettoso. Per le deficienze degli uffici tributari e più ancora per la scarsa coscienza fiscale del contribuente italiano». Sono passati sessantasei anni e il macigno è ancora lì. Enorme, pesante. Contribuisce a bloccare lo sviluppo del Paese.

Falsa e condiziona la ripresa dell’economia italiana. Un’«impressionante» ingiustizia, come ha annotato il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco. Tremonti annuisce: «Il fenomeno dell’evasione fiscale ha dimensioni davvero impressionanti...». Cento, centoventi o addirittura centosettanta miliardi? «È difficile persino dare cifre precise. Ma non è il momento dell’analisi statistica, è quello dell’azione. Ho riflettuto a lungo sulle parole del cardinale Bagnasco, ho pensato ai ripetuti inviti della Conferenza episcopale a debellare un "male" che finisce per avere ricadute durissime sui carichi fiscali delle famiglie e sui servizi loro offerti». Tremonti ragiona a voce alta. «Ha ragione il cardinale, le cifre sono enormi. Anche se è vero che negli ultimi anni l’azione di contrasto è stata più decisa».

Anche il ministro dell’Economia sa, però, che serve un nuovo sforzo, una nuova azione, magari anche più convinzione. E questa prende forma tornando sul concetto del segreto bancario. «Abbiamo stabilito che scompare sul serio e, in pratica, nessuno se n’è ancora accorto, nessuno l’ha notato, nessuno l’ha sottolineato con la giusta rilevanza... Ma legga il decreto legge del 13 agosto; lo legga, per favore...». La nuova norma consente all’Agenzia delle Entrate di chiedere alle banche informazioni fondamentali: movimentazioni complessive annuali, saldi, eventuali garanzie. Queste «verranno incrociate con le dichiarazioni fiscali» e se non sarà tutto chiaro «scatteranno i controlli propedeutici all’individuazione dell’eventuale evasione». Il linguaggio è tecnico, ma il messaggio di Tremonti è netto.

«Così, come nel resto d’Europa, superiamo il segreto bancario. Non per completare l’accertamento, ma per partire da qui, per fare l’accertamento, invertendo il processo, per vedere se i dati bancari da cui si parte coincidono a valle con le dichiarazioni presentate. Se no, c’è la rettifica automatica». È una svolta profonda. Finora i dati relativi alle movimentazioni di qualsiasi rapporto finanziario potevano essere chiesti dal fisco alle banche, ma solo in forma eccezionale, dopo l’attivazione di un controllo fiscale innescato su dati non bancari. E per questo ciò è avvenuto solo in un numero limitato di casi: nel 2010 ci sono state appena 11mila richieste in banca, a fronte di 400mila accertamenti. E nessuno è venuto a saperlo. Tremonti alza gli occhi da quelle ventidue righe dattiloscritte: «Vede, di fatto sulla massa delle movimentazioni bancarie permaneva il segreto...».

Ministro, ma non si corre il rischio di esagerare? In tanti parleranno di "intrusione" fiscale... Lui allarga le braccia e nega: «È stata una scelta difficile, complessa, impegnativa; ma anche una scelta profondamente morale e politica, una scelta non più rinviabile. In Europa funziona così, anzi molto di più. In Europa tutti i dati sono infatti online. Se hai soldi in banca, lo dichiari al fisco». E noi faremo come l’Europa? «Abbiamo ancora molta opacità, diverse zone grigie: in Europa il fisco sa tutto di quello che hai. Lì in dichiarazione si pagano le tasse sugli interessi bancari. Qui da noi non siamo a questo». Un voltar pagina che sa di "pugno di ferro", forse perfino tardivo. «No, è soltanto un grado di rigore in più. Lo ripeto: nessuno ha in mente traumatiche azioni di polizia tributaria; la sfida è aprire una fase di presa di coscienza». Crede che la gente capirà? «Lo spero proprio. Per questo bisogna muoversi con gradualità. Se il progetto verrà realizzato con prudenza ed equilibrio, e io spero che sia così, darà risultati importanti; se dovessimo fare l’errore di spingere troppo sull’acceleratore, rischieremmo di uccidere il progetto prima che parta. Di trasformarlo di fatto in un boomerang».

Non è una sfida facile e un sistema fiscale così "complicato" come quello italiano non aiuta. «Tutti dicono di voler "semplificare", ma nessuno ha mai semplificato. Il nostro sistema è stato disegnato mezzo secolo fa e da allora il mondo è cambiato profondamente...». Tremonti però non anticipa ricette. Ammette solo che nessuna ipotesi di lavoro viene trascurata pregiudizialmente. Anche il modello americano? Anche l’idea di offrire "premi" a chi opera e fa operare fiscalmente alla luce del sole? «È complicato confrontare sistemi troppo diversi, in America lo Stato sociale è corto ed è solo per questo che la lista delle deduzioni fiscali è lunga. Quello è un mondo diverso: non c’è l’Inps, non c’è la scuola pubblica, ti paghi la sanità ed è per questo, non per fare la lotta all’evasione, che deduci tutto». Stiamo ragionando sul contrasto di interessi, ma una pausa leggera precede la nuova riflessione: «E poi vedo anche altri rischi. Chi ha soldi e reddito compra e detrae, ma la persona "incapiente", che campa con settecento euro al mese? Le stesse cose, gli stessi servizi costerebbero meno ai capienti che a lei. Non è costituzionale».

Siamo ormai da un’ora mezzo nell’ufficio del ministro. E a Tremonti preme di modellare l’ultima delle quattro gambe. Per lui importantissima. Vuole riflettere sul ruolo «fondamentale» di controllo del territorio che si è deciso di affidare ai Comuni. «C’è una sfasatura tra il luogo dove si produce il reddito e quello dove si accerta il reddito», sottolinea il ministro, che subito ammette che «l’efficacia dell’azione di controllo, finora, ne è stata compromessa». La svolta è rivitalizzare i Consigli tributari istituiti presso i Comuni. Insomma, là dove l’Agenzia delle Entrate non arriva ecco gli Enti locali. Tremonti spinge. Spera che «si parta prestissimo».

Che sia questione «di mesi», non di anni. «Il Tesoro è pronto a garantire ai Comuni ogni supporto tecnico per metterli nelle condizioni di muoversi ora», assicura il ministro che subito avverte: «Parte dei soldi della lotta all’evasione finiranno proprio nelle casse dei Comuni. Chi non si attiva, non prende nulla. Per contro, proprio i necessari tagli ai Comuni serviranno anche a questo: a spingerli ad attivarsi anche loro nel contrasto all’evasione fiscale».