La globalizzazione crea povertà difendiamo la nostra produzione
«Questa crisi è una crisi con la C maiuscola, purtroppo e per troppi versi simile a quella del '29. Finora non c' è stato panico solo perché l' intervento pubblico non è venuto dopo i crack finanziari ma un attimo prima. Se ne può uscire unicamente con una nuova Bretton Woods, riscrivendo le regole dell'ordine mondiale».
In questa intervista Giulio Tremonti non parla come candidato del Popolo delle libertà o come ministro dell' Economia designato da Silvio Berlusconi. Tremonti è l' autore di un pamphlet La paura e la speranza, uscito solo da pochi giorni, che fa discutere perché è un inno contro la globalizzazione «mercatista» e perché sostiene che l' Europa debba fortificarsi per sopravvivere. Un libro controcorrente nella cultura liberale, non tanto, o non solo, perché non teme l' intervento pubblico nell' economia, ma per l' idea stessa di costruire una nuova identità europea fondata su valori spirituali anziché su quelli materiali. Quasi un manifesto per i neo-conservatori del Vecchio Continente. Questa crisi avrà gli stessi effetti che ebbe quella del '29? «La storia non si ripete per identità perfette. Sta comunque venendo fuori qualcosa di simile a una "global Parmalat", come già dissi davanti alla Sec nel 2004. Nel '29 la crisi fu causata dalla vertiginosa lievitazione dei valori di Borsa in assenza di controlli pubblici; questa crisi è stata provocata dalla salita-caduta dei valori immobiliari sempre in assenza di controlli pubblici perché l' operatività della nuova tecno-finanza globale si è sviluppata fuori dalle giurisdizioni nazionali. L' intensità crescente della crisi modifica tutti i paradigmi reali su cui si è basato il finanziamento della globalizzazione con l' Asia produttrice di merce a basso costo e con l' America compratrice a debito. Ora, se cambiamo i paradigmi reali, devono cambiare anche quelli culturali. Con Goethe: non è la fine del mondo, ma di un mondo. La fine del mondo mercatista, la bancarotta degli economisti che hanno legittimato o non hanno capito cosa si stava creando. Templari furibondi che ora urlano sotto le rovine del loro tempio mentale». Quanto durerà la crisi? «Per fare una prognosi è necessaria una diagnosi. Questa è una crisi globale, strutturale. Non limitata alla finanza, ma estesa all' economia; non limitata agli Stati Uniti, ma estesa al resto del mondo. La crisi di liquidità sta diventando crisi di solvibilità. Gli strumenti tecnici finora applicati hanno evidentemente un' utilità limitata. In ogni caso segnano il ritorno dell' intervento della mano pubblica, l' opposto dei canoni mercatisti. La soluzione della crisi non è dunque tecnica ma politica. Serve una discontinuità insieme concreta e simbolica: una nuova Bretton Woods. Nel '44 si fondò un nuovo ordine economico mondiale, è arrivato il tempo per sostituire al disordine globale un nuovo ordine globale. Prima si convoca una Bretton Woods, prima finisce la crisi». Possibile che il nostro paese non sia stato nemmeno sfiorato dal contagio della crisi dei mutui subprime? «Ogni paese ha la sua specifica struttura finanziaria. Da noi i mutui non sono in crisi ma stanno mangiando la vita delle famiglie. Il carovita prodotto dalla globalizzazione sta creando una nuova povertà, quella che, storicamente, è la più drammatica: quella del ceto medio. In un solo anno il carovita globale ha portato via dalle tasche degli italiani 10 miliardi di euro». La globalizzazione, però, sembra un processo antico e inarrestabile. Già nel 1914, ricordava qualche giorno fa l' ex commissario Ue Monti, i mercati tendevano a globalizzarsi. «Quella che ora si chiama globalizzazione nel '14 era certo fatta dall' "haute finance" ma soprattutto dal colonialismo, dalle emigrazioni di massa e dal conflitto violento tra potenze mercantili. Nel '14 non fu la guerra a terminare la "globalizzazione" ma, combinandosi con altre cause, fu quella "globalizzazione" a scatenare la guerra divorando se stessa. Nel '13 uscì un libro fantastico di Norman Angell che escludeva la guerra. L' anno dopo andò un po' diversamente. Forse viviamo in un tempo che ha più bisogno di umanisti e di storici che di economisti». Diversi economisti, tra i quali Giavazzi, le rimproverano di proporre una ricetta protezionistica priva di sbocchi concreti. Lei non era un liberale o è diventato un no-global? «La Casta mercatista, fino a ieri dominante, tragicamente a corto di argomenti logici, ha formulato un interdetto ideologico. Non è vero che nel '900 le ideologie sono finite, proprio alla fine del '900 è nata un' ideologia nuova: quella mercatista. Ideologicamente si inventa una tesi demoniaca, la si attribuisce all' avversario e su questo si emette la condanna. Per i mercatisti l' accusa è la più tremenda: protezionismo». Ma lei è protezionista o no? «Il protezionismo è male perché è l' uscita dal mercato. Il mio libro, che tra l' altro parla poco di economia, è comunque pro - mercato. Ma proprio per questo non è mercatista ma liberale. Per il mercatismo è il mercato che fa e disfa le regole, come una matrice assoluta e totalitaria. All' opposto il liberismo contiene oltre al mercato anche le regole che creano, correggono e difendono il mercato. Nel libro si dice semplicemente e solamente che non l' Italia ma l' Europa deve fare come l' America: proteggere la sua produzione industriale contro la concorrenza sleale. Stop».