Giulio Tremonti



Rassegna Stampa

- Il Foglio

E' la fine di un mondo

Si ragiona di federalismo fiscale, di crisi internazionale, di mercato e di energia, non di Alitalia (paragrafo decisamente radiato dalla conversazione al minimo tentativo giornalistico di introdurre il tema), né di altri dossier ministeriali. Ma innanzitutto si parla di politica.

Giulio Tremonti si siede e dice: “C’è un vecchio detto: gli uccelli non fanno il nido sugli alberi senza foglie. L’albero della sinistra ha perso le foglie e per questo ha perso i voti. La globalizzazione ha aggredito la sinistra come un defoliante. Una prova empirica? I voti stanno tornando alla sinistra, ai democratici americani con i messaggi trasmessi da Barack Obama. Messaggi di critica alla globalizzazione e di protezione delle sue vittime. Quello che sta riuscendo a Obama non riesce alla sinistra in Europa. Dall’Inghilterra alla Francia, dalla Germania all’Austria, all’Italia e in prospettiva alla Spagna. Su tutto questo scacchiere la sinistra è o sta entrando in crisi. Perché si è idendificata troppo con la globalizzazione. Negli anni Novanta la vecchia classe dirigente laburista e soprattutto comunista è sopravvissuta al crollo del vecchio mondo, è riuscita a far dimenticare il passato soltanto perché ha sostituito le vecchie con una ideologia nuova: il mercatismo. Il mercatismo è stato usato dalla sinistra come ideologia sostitutiva, come salvacondotto. Venuta la crisi della globalizzazione la stessa sinistra non può fare un secondo passaggio, non ha una nuova ideologia sostitutiva, non riesce a far dimenticare il ruolo che ha avuto in un passato così prossimo. L’esercizio riesce a Obama, perché è nuovo. Non riesce alle vecchie classi dirigenti europee che in troppo poco tempo sono state laburiste, comuniste e globaliste. E’ difficile per chi è stato globalista fino a ieri organizzare l’unico sciopero che il popolo della sinistra potrebbe capire e fare in massa: lo sciopero contro la globalizzazione. Certo, la globalizzazione non è stata solo di sinistra, è stata anche di destra; e tuttavia la ‘cifra prevalente’ è stata quella di sinistra. ‘Terza via’, ‘clintonomics’, mistica del cittadino-consumatore, elevazione a supersistema del supermercato Wal-Mart, Seattle vissuto e fatto in strada non dal lato della sinistra protestante, ma dai piani alti del grattacielo come sinistra dominante: tutto questo è stato la sinistra nel decennio fatale, gli anni Novanta, gli anni del disegno ideologico e della spinta economica verso la globalizzazione, un blocco ideologico ed economico che è partito da sinistra, ha spinto verso l’Asia. E proprio dall’Asia parte una controspinta boomerang contro la sinistra stessa. Negli anni Novanta la sinistra si candida a governare la novità del millennio, la globalizzazione. Essendo in partenza e in apparenza un fatto economico prova a governarla in senso manageriale. E’ in coerenza con questo che la sinistra ha una mutazione genetica, dal linguaggio allo stile di vita. Tutto è moderno, tutto è manageriale. L’obiettivo dei vecchi laburisti era ‘support people’, quello dei nuovi postlaburisti ‘support business’. Lo spostamento dallo stato al mercato ha indebolito il people. La crisi economica il business. E’ così che la morsa si è stretta intorno alla sinistra. Che cosa avrebbe dovuto gestire la sinistra? L’education. In Asia si investiva sulla forza delle braccia, in occidente si compensava investendo in capitale umano. L’esperimento non è riuscito particolarmente bene”.

“Imprese, inglese, informatica”. Il ministro dell’Economia si interrompe, cita prima Werner Sombart e poi un libro suo (di Tremonti) di quattordici anni fa, “Il fantasma della povertà”, in cui sosteneva la necessità dell’investimento pubblico nella formazione di capitale umano: “Come la leva militare obbligatoria – spiega – è servita nel Novecento per trasformare i contadini prima in fantaccini e poi in operai, così negli anni Novanta del Novecento per la formazione del capitale umano avrebbe dovuto essere usata la televisione pubblica. E’ in quel libro del 1995 che appare per la prima volta la formula delle tre ‘i’: imprese, inglese, informatica. Non è andata esattamente così”. Se lei avesse avuto responsabilità di governo che cosa avrebbe fatto dieci anni fa? Tremonti risponde: “E’ evidente che non è possibile mettersi di traverso alla storia, ma io credo che i tempi dell’integrazione globale potessero essere rallentati. Allora l’occidente aveva la forza se non per dettare l’agenda, almeno per fissarne le scadenze. Il bilancio che possiamo fare adesso non è positivo come avrebbe dovuto essere. Al principio l’immagine più diffusa per descrivere gli effetti della globalizzazione era quella dell’acqua: il livello salirà e solleverà tutte le barche. Oggi non pare proprio così. In occidente l’acqua sembra scendere, la ricchezza pompata via dai prezzi del petrolio e dal carovita; in Asia sembra – ma non è detto – salire. Fino a dieci anni fa circa 700 milioni di occidentali avevano circa l’80 per cento della ricchezza mondiale, erano un blocco basato su di un unico codice di dominio. Una lingua, l’inglese; una moneta, il dollaro; una politica, il G-7. Il resto del mondo aveva rilevanza marginale. Oggi il 30 per cento della ricchezza è passato di mano: 50 di qua e 50 di là. L’occidente ha ormai soltanto il 50 per cento della ricchezza mondiale. L’altro 50 per cento è in mano a due-tre miliardi di persone, Africa esclusa, segmentate in una dimensione politica fortemente differenziata: si va dal capitalismo comunista cinese, alla democrazia castale indiana, alla risorgente politica imperiale (ottocentesca) russa, e poi un catalogo di figure atipiche: stati feudali, stati canaglia, cartelli, fondi sovrani. Per contro, l’occidente si è indebolito, non ha più una moneta, ma due; non ha più un centro forte di decisioni com’era il G-7. Miopia è non vedere tutto questo. Utopia sarebbe dire che siccome il mondo è unico e il mercato pure, la soluzione è quella di una moneta unica mondiale, che sarebbe poi una replica post-moderna del gold standard. Tra miopia e utopia c’è una via di mezzo. La via che porta a una nuova Bretton Woods, un grande accordo internazionale sul sistema dei cambi e sulle regole del mercato globale”.

Significa che un paese come l’Italia potrebbe assumere un’iniziativa politica internazionale per promuovere una sessione di colloqui su un nuovo ordine legale ed economico internazionale? “Processi di questo tipo hanno una dimensione complessa, corale, una meccanica politica molto articolata. Non c’è spazio per iniziative o politiche puramente nazionali. O il processo è internazionale, o non è. Comunque, due anni fa queste cose non le diceva nessuno, oggi in giro per il mondo c’è un crescente consenso della comunità economica e politica su un’iniziativa del tipo nuova Bretton Woods. Forse il nostro contributo potrebbe essere non solo culturale, con i libri, potremmo darlo nel 2009 con la presidenza italiana del G-8”. Altri leader europei fanno un’analisi simile alla sua, che parte dalla constatazione del fatto che l’occidente vede restringere il proprio spazio. Altri come il cancelliere tedesco, Angela Merkel, o il ministro degli Esteri britannico, David Miliband, hanno proposto la soluzione di un rafforzamento della dimensione politica transatlantica. “Queste idee transatlantiche sono antecedenti alla crisi della globalizzazione che ora porta all’ipotesi di una nuova Bretton Woods, comunque ne possiamo parlare. Il primo a parlare di unificazione transatlantica è stato José Maria Aznar: fede occidentale, ma anche un disegno politico tipicamente spagnolo: l’ispanidad, proiettata fino all’America latina, come base per lanciare, in una dimensione atlantica, la Spagna. Anche per questo fece la sua Crimea, cioè l’Iraq. L’idea transatlantica è anche un’idea tedesca, ma basata soprattutto su di una logica economica. Alla Germania interessa l’unificazione Europa-America degli standard doganali, delle norme sul copyright, e delle regole antitrust. Bretton Woods, invece, è un’altra cosa. Certo in una nuova Bretton Woods ci deve essere un’Europa più forte, basata sui suoi fattori identitari, sulle sue radici”. Il ministro dell’Economia si interrompe, prende il testo dell’intervento all’Aspen del primo luglio scorso alla conferenza sui rapporti transatlantici, e cita Alexis de Tocqueville: “L’America, figlia dell’Europa, ne rappresenta il destino. Io la penso così”, dice.

“L’Europa avrebbe dovuto avere due pilastri”. Qual è il suo giudizio sulle condizioni dell’Europa? Dice: “L’Europa avrebbe dovuto essere basata su due pilastri. Il trattato di Roma sul mercato unico, una linea politica che si è chiusa con il passaggio dal mercato unico alla moneta unica (da questo punto di vista Maastricht è soltanto il completamento di Roma). Nel disegno originario, il secondo pilastro era il trattato Euratom sull’energia. Il primo pilastro è stato edificato, il secondo è mancato. La mancanza del secondo pilastro, Euratom – una politica colbertiana di investimenti pubblici in un settore che non poteva essere lasciato al mercato – oggi si fa sempre più grave. Il paradosso è che costruiamo dentro l’Europa il mercato perfetto dell’energia, mentre fuori c’è il monopolio perfetto, o duopoli, aziende di stato, cartelli, eccetera. La debolezza istituzionale dell’Europa è comunque evidente anche in altri settori. Per esempio nella gestione delle crisi bancarie. Mentre gli americani fanno massicci interventi di salvataggio pubblico sulle banche, gli europei considerano un aiuto di stato vietato l’intervento di salvataggio di Northern Rock nel Regno Unito. Anche se poi il ‘mercato perfetto’ europeo convive con l’ipocrisia. La Bce con una mano ha erogato liquidità su vasta scala, con l’altra mano ha accettato a garanzia collaterale portafogli di crediti di molto incerto valore. Anche queste sono politiche di salvataggio occulte”.

Durante la crisi, Giulio Tremonti ha manifestato spesso scetticismo riguardo alla capacità del mercato di autoregolarsi. Sostiene che da dieci anni è sempre la stessa bolla: “E’ partita con la new economy, è passata attraverso la subprime economy e oggi cerca sbocco nelle commodities a partire dal petrolio”. Sul petrolio, anche in presenza di scommesse speculative, i meccanismi dei prezzi sembrano funzionare. In questi giorni le quotazioni stanno scendendo. Obietta: “La discesa del prezzo improvvisa come la salita non esclude ma all’opposto prova la speculazione, che c’è stata e che comunque c’è ancora. In ogni caso i messaggi politici contro la speculazione hanno funzionato. Noto che fuori dal petrolio, sulla Borsa americana sono attualmente vietate le operazioni short, cioè speculative. Che fine ha fatto il mercato? Le banche sono nazionalizzate, la speculazione è vietata nel tempio stesso della finanza. Che i santoni del mercato battano un colpo”. Per questo non le piace il Financial Stability Forum? “In un mondo in cui c’è più instability che stability, vedo funzionare soprattutto i meccanismi di intervento pubblico, non credo ai topi messi a guardia del formaggio”.

“Con il Ventinove le differenze sono due”. Chiediamo al ministro dell’Economia di chiarire un punto nella sua posizione di questo ultimo anno. Sostiene che la crisi manifestatasi con i subprime sia una degenerazione dell’iperfinanziarizzazione dei mercati e dall’assenza di adeguati meccanismi di controllo. E questa è una valutazione che molti governi e molti economisti condividono. Egli però ha svolto un passaggio ulteriore: e cioè che questa crisi si presentava come una specie di Ventinove, fu il primo a dirlo in una intervista. Per il momento, però, a parte la Danimarca (crescita negativa per due trimestri consecutivi), nessuno dei paesi occidentali è in recessione. Qual è dunque il vero tasso di pessimismo di Giulio Tremonti in questo momento? “La storia non si ripete mai per identità perfette. Sta comunque crescendo l’idea che siamo di fronte alla crisi più grave dal dopoguerra. Con il Ventinove le differenze sono due: allora c’erano relazioni internazionali, ma non c’era la globalizzazione; la crisi del Ventinove si amplifica nel panico e gli strumenti di salvataggio vengono inventati soltanto qualche anno dopo. Adesso quegli strumenti ci sono e forse per questo non c’è il panico. Ma sostenere che essendoci gli strumenti per il governo della crisi significa che non c’è la crisi, è come dire che essendoci il vaccino non c’è il vaiolo. Il fatto che ci siano gli strumenti per la gestione della crisi, non ci libera dal dovere fondamentale, culturale, morale e politico di analizzare le cause delle crisi e le alternative di paradigma e di modello. Non è la fine del mondo, ma è la fine di un mondo, probabilmente. C’è più moralità in un prodotto meccanico che in un prodotto finanziario, in un’auto della Fiat che in un future della Goldman Sachs. E’ evidente che tutto questo mette in crisi modelli culturali, che tra l’altro stende sul lettino dello psicanalista coorti di economisti. Ma questo è il male minore. Più seriamente, nel sistema italiano ci sono elementi di forza. Il settore bancario e quello assicurativo sono forti e non sono stati toccati dalla crisi internazionale, le imprese industriali, anche se di dimensioni ridotte, si sono ristrutturate e sono in piena vitalità, le famiglie hanno una dote di risparmio e sono molto meno indebitate di quelle di altri paesi, il nostro sistema pensionistico è più affidabile di tanti altri. Questi elementi positivi costituiscono una buona dote di partenza. Poi credo che se svolta ci sarà nell’economia mondiale, dipenderà anche dalle elezioni americane, e dal ciclo che determinerà”.

Ma come si concilia il rilancio di un’economia rallentata – sia o non sia Ventinove – con la ricetta del rigore sui conti pubblici? “La nostra linea politica si sviluppa su tre direttrici. Non sono tre fasi una dopo l’altra, ma sono tre direttrici di marcia contemporanea e coerente, stabilizzazione dei conti pubblici, piattaforma di sviluppo, riforma dello stato e federalismo. Se guardi un pezzo e non l’insieme, non capisci la nostra linea politica. Uno può dire che è giusta o sbagliata, ma non si può staccare un pezzo dal resto. Primo punto, consolidamento e stabilizzazione triennale del bilancio pubblico. La Finanziaria è stata anticipata a prima dell’estate e proiettata su tre anni, modello europeo. L’abbiamo fatto per queste ragioni. C’era l’impegno preso in Europa dalla Repubblica italiana (Berlino 2007), l’impegno al pareggio di bilancio nel 2011. Poi è venuta la crisi finanziaria, e rigorizzare i nostri conti pubblici non è soltanto un impegno con l’Europa, ma ora anche un modo per gestire la crisi e per evitarne effetti collaterali negativi. In un contesto di crisi, evitare politiche deficiste – e all’opposto consolidare i conti pubblici – vuol dire mettere in sicurezza un bene pubblico fondamentale che può venire buono come ultima necessaria istanza: consolidare con il bilancio pubblico la forza di governo del Governo. I numeri del Dpef si sviluppano in automatico nella proiezione europea del pareggio di bilancio. Dalla ferrea meccanica di quei numeri che sono l’impegno europeo non si esce violando l’impegno, per esempio facendo politiche deficiste, politiche illusorie che per venire incontro alla sofferenza che si manifesta in fase di crisi, non alleviano ma accrescono quella sofferenza. La via d’uscita alla ferrea logica di quei numeri (che per raggiungere il pareggio di bilancio a realtà data impone rigore sulla spesa pubblica ed esclude deficit spending o riduzioni fiscali fatte in deficit) è soltanto il cambiamento della realtà italiana. Bisogna rilanciare la produzione industriale, e riformare la struttura dello stato. Non è all’interno dello schema dato di economia e di finanza pubblica, ma solo riformandoli che si può davvero estrarre un solido e non effimero dividendo fiscale.

“Federalismo fiscale con Pd ed enti locali”. Qual è la parte che spetta al governo? “Nell’Europa contemporanea i governi non fanno l’economia, l’economia la fa l’economia, i governi hanno il potere-dovere di fare la piattaforma istituzionale su cui si lancia la produzione industriale. Con la coppia disegno-decreto di giugno, ora in approvazione, l’Italia fa per la prima volta la sua agenda di Lisbona, un forte blocco di provvedimenti: concentrazione dei fondi europei, avvio del programma nucleare, piano case con l’uso razionale della Cassa Depositi e Prestiti, liberalizzazione dei servizi pubblici locali, riforma del processo civile, riduzione della burocrazia, università che possono diventare fondazioni. Non abbiamo cifrato ex ante il maggior prodotto interno lordo, effetto possibile di questi provvedimenti, ma quando le condizioni di congiuntura internazionale diverranno meno avverse – e prima o poi questo sarà – ci sarà spazio per un primo dividendo fiscale”.

C’è una terza direttrice nel quadro descritto dal ministro dell’Economia, la riforma costituzionale dello stato e il federalismo fiscale. A che punto stanno le cose? Spiega: “La riforma dello stato è una riforma costituzionale sintetizzata nella bozza Violante ed è ora in fase di approvazione bipartigiana. In parallelo c’è il federalismo fiscale. Sul federalismo fiscale abbiamo già alcuni elementi certi: la scelta di farlo in Parlamento alla Camera dei deputati; di farlo insieme, maggioranza e opposizione; di farlo insieme, stato regioni e comuni. Sappiamo inoltre che è fondamentale acquisire prima una base statistica di dati condivisi, senza i quali non si possono fare scelte politiche razionali. Da settembre a dicembre, cioè a soli sei mesi dall’avvio della legislatura, consideriamo ragionevole l’ipotesi di fare approvare una legge che contenga i principi generali della delega sul federalismo fiscale; poi in progressione sperimentale e graduale seguiranno i decreti applicativi”.

Per arrivare a una soluzione condivisa c’è bisogno di un interlocutore forte. Chi è per lei il capo dell’opposizione in questo momento? “Dell’opposizione o dall’opposizione preferiremmo più la forza che la debolezza. In ogni caso sul federalismo fiscale il confronto non è solo con la classe dirigente nazionale, ma anche con la classe dirigente locale che, per suo conto, ha un’alta cifra non solo amministrativa ma politica. La Costituzione vigente presuppone il federalismo fiscale. Quella sul federalismo fiscale, se non formalmente, è, dunque, sostanzialmente una legge costituzionale. Per la sinistra partecipare a questa riforma costituzionale può forse essere uno dei modi per fare tornare le foglie sul suo vecchio albero”.