Giulio Tremonti



Rassegna Stampa

- Il Foglio

Tremonti ci spiega la Crisi della tecnofinanza e non solo

Turbolenza? Altro che turbolenza, per Giulio Tremonti è una Crisi (sì, con la C maiuscola). Alti e bassi del ciclo? Macché, da agosto in qua, vengono trasmesse scosse d'intensità crescente e non è finita.

Roma. Turbolenza? Altro che turbolenza, per Giulio Tremonti è una Crisi (sì, con la C maiuscola). Alti e bassi del ciclo? Macché, da agosto in qua, vengono trasmesse scosse d’intensità crescente e non è finita. Prima ci si rende conto che è in corso un cambio storico, meglio è. «Una svolta che richiede nuove categorie politiche. Il liberismo estremizzante non interpreta la realtà. Questo sta facendo molti orfani intellettuali». A loro e a chi non s’è ancora accorto di essere orfano, Tremonti propone di passare dell’ideologia al realismo: il mercato se è possibile, lo stato se necessario. Ricorda che nel novembre scorso il Corriere della Sera pubblicò una sua intervista. «Il giornale scrisse nel titolo ‘tipo 1929’,  la mia opinione è che la storia non si ripete, però la Crisi c’è, non è solo finanziaria e non è solo in America. L’ontologia aristotelica della crisi, se sia sostanza o accidente, interessa poco. Credo sia più significativa una riflessione sullo stato di salute del capitalismo. Se la globalizzazione con il suo mercatismo abbiano o no dischiuso una età dell’oro».

Tremonti fa un passo indietro ed espone la regola del tre volte cinque. Nel 1989 cade il muro di Berlino, il mondo si unifica, vengono rimossi confini ideologici ed economici e liberate risorse tecnologiche militari (internet la principale). Cinque anni di incubazione, poi nel 1994 viene la Wto a Marrakech che dà il via alla liberalizzazione dei mercati. Seguono altri 5 anni in cui le forze messe in campo si caricano di potenza, poi la doppia reazione, quella negativa del mondo arabo che subisce lo shock identitario e reagisce con violenza e qualla positiva del mondo orientale. L’11 settembre 2001 si allinea con l’11 dicembre 2001 quando la Cina entra nella Wto. «I cinesi fanno i cinesi, la mia critica non è alla Cina, ma alla architettura burocratico-dogmatica dell’Europa: inventata per fare il mercato unico, non  si è accorta che non è più l’unico mercato. In Cina il mercato è fatto da imprese e banche di stato, in Europa è vietato l’aiuto di stato. È più giusto questo divieto di quel permesso ma non si può dire che venga rispettata la condizione base del mercato: la parità concorrenziale». Per la globalizzazione non erano sufficienti il proletariato esterno, l’esercito di riserva fatto dalla manodopera orientale a basso costo e neppure gli spiriti animali liberati nel mondo o i computer, insiste Tremonti. «Serviva un’ideologia, quella che ho chiamato mercatismo: un mondo unico, un mercato unico, un pensiero unico, un uomo a taglia unica, la forma nuova, assoluta, vincente, di un nuovo materialismo storico. Ebbene questo apparato ideologico sta entrando in crisi».

I sintomi sono molti. «Primo, la Cina oggi non è più percepita come un valore assoluto né in America né in Europa e nemmeno a Bruxelles. C’è un crollo di affidabilità e di popolarità. La gente non vuole più free trade, ma fair trade. Ricorda chi ne parlava nel 2001?». Il secondo sintomo è nei fondi sovrani «dove l’aggettivo cancella il sostantivo. Queste specie capitalistiche nuove sono veri e propri strumenti statali». Terzo: il mercato dell’energia, sempre più strategico. «In Europa stiamo creando il mercato perfetto, mentre intorno all’Europa si crea il monopolio perfetto. Gazprom è una corporation o una nuova Compagnia delle Indie orientali? Non ho mai visto l’antitrust europeo mandare una lettera a Gazprom». Quarto, l’agricoltura. «I prezzi dei cereali schizzano ina lto per la domanda di India e Cina, e perché c’è chi li trasforma in carburante. Da noi perché l’architettura agricola europea sta diventando un assurdo. Mi pare il mondo all’incontrario».

Infine il sintomo dei sintomi, la crisi finanziaria. «La tecnofinanza ha alimentato la globalizzazione, sostenendo tra l’altro la domanda del consumatore americano. Per secoli i banchieri hanno preso denaro sulla fiducia e lo hanno prestato a rischio. La tecno-finanza consentendo di incorporare il rischio di prodotti e di cederli sul mercato, ha creato l’illusione di far scomparire il rischio, invece lo ha moltiplicato. E i primi a non aver più fiducia dei banchieri sono proprio i banchieri».

«Il mercatismo non funziona»
Ma per Tremonti è il ruolo delle banche centrali che spinge davvero a un’analisi politica diversa da quelle convenzionali. «La mano pubblica si è sostituita alla mano privata, lo stato ha salvato il mercato insomma. Come si fa di liberismo e di liberismo finanziario? Quando c’erano 10 milioni di disoccupati, i liberisti dicevano: è il mercato. Se invece c’è un default finanziario e interviene lo stato i liberisti o tacciono o lo giustificano. Qual è il filo della coerenza intellettuale e morale? Il liberismo è una cosa, il liberalismo è un’altra cosa. Il liberismo è forza dogmatica, il liberalismo è empirico, è come un orologio meccanico fatto di pesi e contrappesi, spinte e controspinte». Ma il liberismo è diventato di sinistra. «Non so se è di destra o di sinistra, so che il mercatismo non funziona e l’età dell’oro non esiste. È ancora da venire. Guardi quanto costa un chilo di pasta o un litro di benzina. Le azioni del free trade sono in caduta libera mentre salgono quelle del fair trade». E lei cosa propone? «Il liberismo in senso storico, quello che dice: market if possibile, government if necessary». In Europa chi è più vicino se non Nicolas Sarkozy? Per Tremonti il presidente francese sta costruendo in modo concreto, «senza furori ideologici né reaganiani né comunisti».

Il cambio di paradigma comporta anche un cambio di politiche, a cominciare da quella fiscale. Sul Foglio, Felli e Tria hanno proposto di ridurre le imposte dirette e aumentare quelle sui consumi. «Sul piano politico non esistono copyright, su quello scientifico dovrebbe invece esistere una corretta ricostruzione del pensiero», commenta Tremonti, il quale ricorda quel che scriveva nel 1991 assieme a Vitaletti: passando dall’età dell’idealismo all’età del consumismo, proponeva uno spostamento dell’asse del prelievo fiscale dalle persone alle cose. E soprattutto ricorda il libro bianco sulla politica fiscale del primo governo Berlusconi diffuso su mezzo milione di copie, che conteneva la proposta di ridurre l’imposta sul reddito aumentando simmetricamente quelle sulle cose a partire dall’Iva. «Escludo che per un’idea valga l’usucapione, ma ci guadagnerebbe la serietà intellettuale». Perché in Italia non se n’è fatto niente, mentre la Germania va in questa direzione? «Una cosa è produrre scritti scientifici e una cosa è fare attività di governo, una cosa è fare il medico di emergenza al pronto soccorso, un’altra in una spa o in uno stabilimento termale. La Germania sceglie la riforma in una fase di crescita, dopo aver assorbito lo schock da globalizzazione e con una grande coalizione. Noi dal 2001 siamo stati costretti ad operare in emergenza, in recessione e con il terzo debito pubblico del mondo, abbiamo evitato crisi sociali e finanziarie, lavoro e pensioni sono state le nostre priorità». E adesso? «Adesso temo che saremo di nuovo sotto shock».