Giulio Tremonti



Rassegna Stampa

- Il Sole 24 Ore

Subprime, troppi aiuti di Stato

«Agosto 2007. Un mese davvero particolare. Di solito il mercato è la regola, l'intervento pubblico è l'eccezione. In questo mese è stato l'opposto. Nella serie storica - intesa nel senso della storia-storia - non credo che ci siamo stati interventi pubblici sul mercato così prolungati nel tempo e così estesi per scala dimensionale».

Giulio Tremonti, vicepresidente di Forza Italia, sta raggiungendo Telese, pronto a ingaggiare l'ennesimo duello fiscale con il centro sinistra (stavolta c'è da commentare il decalogo di Veltroni sul fisco: «Analisi piena di numeri: punto 1, punto 2, punto 3...» ); ma non rinuncia a qualche riflessione sulla crisi dei mercati finanziari che, tra l'altro, aveva preconizzato fin da' metà dell'anno scorso.

Intervento pubblico: ma parla della Bce e della Fed?

Mi riferisco certo agli interventi della Fed, della Bce e della Banca d'Inghilterra, ma noto che la gamma degli strumenti utilizzati, non è stata limitata - si fa per dire - agli interventi più o meno tipici delle banche centrali ma estesa ad altri strumenti: a partire dai salvataggi bancari operati con la mano pubblica o comunque su impulso pubblico.

Ma la gestione della liquidità è una delle leve classiche - l'altra sono i tassi - della politica monetaria?

Non ho detto che sono stati tutti interventi poco ortodossi. Mi limito a notare che un conto è la manovra sui saggi di interesse, un conto è comprare a condizioni di favore da un operatore finanziario in difficoltà un portafoglio titoli o asset vari, un conto è orchestrare acquisizioni-salvataggio. L'insieme prolungato nel tempo e scalato su dimensioni colossali integra un intervento pubblico diciamo non usuale.

Scusi, ma lei avrebbe preferito che si verificassero fallimenti a catena?

Una bella domanda colbertista. Diciamo così: esistono certo le ragioni istituzionali di tutela del "sistema". Ragioni che i ministri del Tesoro conoscono molto bene. Fa tuttavia un certo effetto pensare che, quando c'erano milioni di disoccupati, i maestri del mercato e i corifei della concorrenza ne cantavano le leggi inesorabili (dunque niente "aiuti di Stato" di alcun tipo). Quando a saltare sono operatori finanziari che hanno esagerato nell'azzardo, quando in ballo ci sono i bond o gli hedge e non i posti di lavoro, allora la regola aurea base del capitalismo - la re-sponsabilità - viene meno. Per concludere: la moneta è la "regina" del mercato ed è corretto farne oggetto di attenzione particolare. Ma forse non è stato e non è corretto essere mercatisti radicali solo a intermittenza.

A chi si riferisce?

Basta guardare non quelli che hanno scritto in questo mese, ma a quelli che non hanno scritto. Preferisco fare una riflessione generale sugli effetti politici e sociali di questa crisi che ha - a mio parere - una intensità e una dimensione da costituire un vero tornante della nostra vita collettiva. Ha segnato la fine dell'illusione economica che il progresso fosse continuo e gratuito. La crisi ha marcato il passaggio dal futurismo al realismo, dalla irresponsabilità - consentita dai nuovi strumenti finanziari - alla responsabilità.
Se stiamo ai subprime, però, chi vendeva garantiva alti rendimenti, ma chi comprava sapeva di avere margini di rischio correlati. Non crede ci sia ancora un problema serio di cultura del rischio?

Mi sta dicendo che non è una questione di responsabilità degli operatori ma un tema di cultura o di "educazione" finanziaria?

Possono essere entrambi. Francamente penso che siano stati rilevanti la non-cultura e la non-educazione ma soprattutto alla base la responsabilità di alcune classi o tipologie di operatori.

Comunque c'è stato un deficit di informazione...

Si scrive informazione ma si legge vigilanza o, in termini generali, nel linguaggio del G7, "sorveglianza".

Ma che dire della vigilanza, allora? Durante questa crisi ha funzionato l'azione di controllo sugli operatori e sulle banche?

Avendo una qualche esperienza in materia di "vigilanza" ho come l'impressione che si aprirà in Europa - in parallelo con il progressivo crescere degli effetti economici e sociali - un dibattito pubblico anche sulla responsabilità delle vigilanze. E’ del tutto evidente che, in tanti casi, purtroppo gli interventi sono stati di tipo "retroattivo". Insomma, una vigilanza ex post.

C'è anche un problema di agenzie di rating e di declassamenti ex post.

Le agenzie di rating hanno avuto solo una colpa contrattuale: non sono soggetti pubblici, non hanno funzione pubblica come invece hanno i revisori. Per principio sono operatori di mercato che operano sul mercato. Se c'è una anomalia istituzionale semmai è che la forma di controllo del mercato sia affidata a un oligopolio. Data la dimensione colossale del mercato stesso è un po' singolare che ci sia la negazione del mercato all'interno di un centro vitale del mercato come è la valutazione dei titoli o delle imprese.

Come se ne esce?

Non credo che la soluzione sia nell'introdurre un ulteriore tasso di regolamentazione, quanto nell'effettiva apertura al mercato delle attività di rating.

Che idea si è fatta del ruolo delle banche in questa crisi?

La stessa che ho rappresentato in Parlamento nel gennaio 2004 durante la mia audizione sul risparmio. Fuori dalla patologia specifica - denunciata a partire dal 2002 - l'essenza dell'audizione era sulla trasformazione della funzione di banca. Nella funzione classica, la banca trasferisce denaro dal comparto risparmio al comparto produttivo assumendo il rischio relativo. La tecnica dei bond - e intendo bond come paradigma dei nuovi strumenti finanziari - ha aperto alle banche la possibilità di ridurre il loro rischio proprio di impresa retrocedendolo al mercato o - anomalia assoluta - alla propria base di clientela.

Dunque un mercato-non mercato?

Naturalmente un conto è l'utilizzo fisiologico dei corporate bond, un conto è l'uso che se ne è fatto negli ultimi anni, anni in cui la crisi finanziaria è stata generata e incubata. Per essere chiari: i corporate bond ci sono sempre stati e sono strumento perfettamente efficiente e corretto per il finanziamento del sistema produttivo. La fenomenologia nuova - e non sempre positiva - non si è manifesta sul lato del finanziamento delle imprese quanto, ripeto, sul lato della traslazione a terzi (clienti, azionisti, risparmiatori) del rischio di banca. Dopo l'esplosione dei grandi scandali finanziari italiani, nelle discussioni avvenute in Europa e nelle sedi finanziarie 'internazionali e in America, ho più volte evidenziato che - fuori dalle patologie e dal folklore propri dei nostri scandali - non si trattava di un fenomeno tipico dell'Italia, ma aveva una dimensione globale. Credo che i fatti di questi giorni lo abbiano posto in evidenza.

Bush ha detto: l'economia è solida. Per Bernanke è una crisi di estrema gravità. Chi ha ragione?

Quello che ha detto Bernanke ieri non è molto diverso da quello che ho detto nel
novembre 2006: facendo il politico però ho più tempo per leggere qualche libro di storia e soprattutto ho un grado maggiore di libertà.

Insomma una crisi globale e grave, ma è finita davvero?

Credo che altre parole entreranno nel lessico di questa crisi: la parola hedge, la parola conduit. In questi termini non credo che la crisi sia finita. Penso che la sua intensità sia stata contenuta - per ora - dagli interventi pubblici. Ho trovato curiosa la discussione ontologica se fosse o no crisi "tipo 1929" o "non 1929". Ho trovato curioso il linguaggio usato. Ad esempio la distinzione tra crisi di liquidità e di fiducia. Se non c'è liquidità è perchè non c'è fiducia.

E’ stato solo un terremoto di Borsa?

Credo che l'analisi vada fatta soprattutto sul mercato finanziario. La reale cifra della crisi sarà marcata più che dalla Borsa da questo specifico segmento del mercato.
Intanto c'è chi propone di spostare i tempi per l'adesione a Basilea2.
Ricorda invece con quanta enfasi fu annunciata l'urgenza di farne parte? Trovo curioso che oggi si chieda autorevolmente il rinvio proprio per continuare a esternalizzare i cosiddetti "veicoli fuori bilancio", i conduit, appunto.

Ci saranno effetti sulla crescita italiana?

È stata - ed è - una crisi con la C maiuscola. Secondo l'Istat - nel primo semestre 2007 - l'economia italiana era in frenata dal 2% all'1,8-1,5% già prima dei rovesci delle Borse. Quindi l'ipotesi di correzione di cui si parla dal 2% all'1,7% non può essere attribuita alla crisi (che non c'era ancora). In altri termini, l'impatto sulla crescita della crisi finanziaria va aggiunto. Meno liquidità per le imprese, meno ricchezza per le famiglie, meno entrate automatiche per il Fisco. In sintesi sono ancora da calcolare gli effetti "politici" di questa crisi "finanziaria". In aggiunta, dato che qualche volta piove sul bagnato, posso fare una domanda: come è andata la stagione turistica?