Giulio Tremonti



Rassegna Stampa

- Panorama

In cattedra con Marx, che sarebbe inorridito

Prendi la mappa di una generazione e vai a caccia degli antipodi del Sessantotto: entri in un palazzo romano, s’apre uno spazio bianco, ti siedi di fronte a una scrivania dalla quale affiorano una biografia del molto onorabile primo conte di Oxford, Robert Walpole, e i Principi di politica dell’oppositore di Napoleone, Benjamin Constant. Poi vedi Giulio Tremonti e capisci che la ditta di demolizioni del '68 qui ha la sua sede legale.

Tremonti, lei dov'era e cosa faceva negli anni Sessanta?

Ero in un collegio universitario di Pavia. Offriva fantastiche condizioni di vita e di studio, garantite anche a chi non aveva i mezzi economici, ma a una sola condizione: che si superassero tutti gli esami entro l'autunno e con la media del 27. Naturalmente, se non prendevi 30 ti suicidavi.

Lei ha fatto il '68?

Il '68 io l'ho visto nel '67 o addirittura nel '66, ma non l'ho fatto. Quello del collegio era un ambiente che non solo viveva ma anticipava i fatti culturali. Ricordo di aver visto, già nel '66, un vicino di camera, lo chiamavano "uccellone", tradurre il dizionario cinese. Era già proiettato su Mao. Quello che poi è esploso nelle piazze di Parigi nel '68, nei collegi di Pavia c'era già, seppur in vitro.

Che cosa era per l'immaginazione al potere?

Come immaginazione, diciamo che immaginavo altre cose.

Si sentiva un pesce for d'acqua?

No, era roba folcloristica che su di me scorreva un po' come l'acqua sulla pietra. Poi, dopo la laurea, ne ho visto emergere anche gli sviluppi violenti.

Un ricordo del passaggio dalla teoria alla prassi?

Un gruppo di studenti sta partendo da Pavia per una manifestazione a Milano. Alcuni goliardi buttano una busta d'acqua al loro passaggio, il classico gavettone. Per risposta, contro le finestre vengono sparate biglie d'acciaio. L'atmosfera si era indurita.

Da professore cosa pensava delle occupazioni?

Nella piccola università in cui ho avuto il primo incarico, nel 1974, le occupazioni erano poco frequenti e per nulla drammatiche. Mi sembravano più che una forma d'esercizio, un limite al diritto allo studio.

In che mondo abitava il giovane Tremonti?

Avevo i capelli corti (che si sono allungati un po', come per tutti, negli anni Settanta), mettevo la cravatta, leggevo La Tribuna, ero iscritto alla Gioventù Liberale. Mio padre era un liberale, mio nonno antifascista, l'atmosfera in casa era quello del vecchio Pli e io avevo questa impostazione.

Poi arriva la svolta, diventa socialista. Quando?

Nel 1972, durante il servizio di leva, da soldato semplice al Car di Orvieto. Una cartolina ricevuta all'improvviso, venendo da Sondrio, non ero raccomandato. Per rinviare il servizio militare allora c'era un solo modo: iscriversi ad una scuola di specializzazione. Cambiarono la legge, diciamo senza avvertirci, e mi ritrovai in grigio-verde. A Orvieto il mondo dei contadini soldati che venivano dalle regioni più povere del Sud. Pur arrivando dalla Valtellina (e lei sa che in montagna la vita è dura) il mio incontro con quella realtà è stato una svolta. Così sono uscito dal dorato mondo liberale e sono diventato "socialista".

Senza mai passato dal portone del '68. Chi influì la sua scelta?

Il mio maestro era Gian Antonio Micheli, erede di Pietro Calamandrei sulla cattedra di Firenze. Micheli era un borghese cosmopolita, certo non di destra. Un po' per l'impatto prodotto dal servizio militare, un po' per la scuola di Micheli, mi sono spostato verso la cultura socialista.

Che idea s'è fatto di quel mondo, degli slogan, dei militanti, dei leader?

Quel mondo era fatto da tanti poveri, illusi. E da un sacco di fortunati annoiati che il '68 se lo potevano permettere. Qualche leader veniva dal basso, ma quasi tutti venivano dall'alto. E così ci guadagnavano due volte:  faticavano di meno, si divertivano di più.

Qualcosa di buono di quegli anni sarà rimasto.

La maestà della mediocrità.

In Francia Nicolas Sarkozy ha avviato l'opera di revisione di qeul periodo. In Italia sembra impossibile. Perché?

Perché l'Italia, tra i paesi europei, è quello che il più grosso residuato di "cultura" sessantottina.

Perché la critica di Sarkozy al '68 ha consenso?

Perché il '68 ha fallito e stufato. Non è solo un fatto di revisione storica. Quel movimento ha prodotto effetti opposti a quelli desiderati.

Non sosterrà, come Sarkozy, che "ha fatto sparire la moralità dalla politica"?

Non solo ha fatto sparire la moralità dalla politica, ha anche tolto la speranza ai poveri.

Lei vuole essere come Sarkozy, il becchino del '68?

Il '68 non si può abolire per legge, ma certo si possono fare legi anti '68.

Quali leggi?

Per esempio quella dell'alza bandiera, una cosa semplice. La politica grande si fa con le cose più piccole, perché sono quelle che la gente capisce. La politica si fa con i simboli.

E dopo aver alzato la bandiera che si fa?

Scrivo un libro, uscirà nei primi mesi dell'anno, una parte sarà su Autorità & Responsabilità e su Legge & Ordine.

Che significa?

Bisogna ristabilire il principio di autorità negli uffici pubblici, il principio di gerarchia, perché un conto è tutelare i diritti dei lavoratori, un conto è distruggere il prestigio dello Stato. Presenterò la proposta di legge sul principio di responsabilità, gerarchia e autorità nella pubblica amministrazione.

Chi salva tra i sessantottini?

Tutti, basta che si pentano.

Hai mai letto i testi sacri del '68? Herbert Marcuse?

Marcuse l'ho letto. Una lettura tardiva e non retroattiva, negli anni Ottanta.

Per molti "L'uomo a una dimensione" è l'equivalente mitologico della corazzata Potëmkin.

Sì anche nella popolare conclusione fantozziana. Ma sto scambiando Marcuse con Fantozzi, forse è un trasfert freudiano. Già che ci siamo, Freud è molto meglio di Marcuse. Ancora devo verificarlo, ma mi pare che Freud non abbia fatto il '68.

Gli ultimi sviluppi del pensiero tremontiano sembrano un testacoda: critica alla globalizzazione, alla finanziarizzazione dell'economia, elogio di Karl Marx. Che le succede?

Il fantasma della povertà (un saggio pubblicato dalla Laterza, ndr) l'ho scritto nel 1995! Le mie posizione sulla globalizzazione, sul fair trade al posto del free trade, contro il dominio mercatista, le ho esposte da ministo dentro il G7 a partire dal 2001. Lei ha letto l'enciclica di Benedetto XVI sulla speranza?

Sì, e allora?

Cita Marx con grande attenzione. Il Manifesto e il Capitale sono testi straordinari. Chi li ha letti poco di come funziona il mondo. Un conto è leggere Marx, un conto è essere comunisti e fare i comunisti.

A questo punto però bisogna essere logici e chiederis: che c'entra Marx con il '68?

Marx i sessantottini li avrebbe... Posso tornare con un lampo di memoria agli anni e al linguaggio del collegio?

Faccia pure.

Marx i sessantottini li avrebbe presi a calci in culo. Ma basta con la truculenza, torniamo al politically correct, usiamo il linguaggio sportivo.

Marx batte Marcuse...

Marx batte Marcuse 10 a 0, palla al centro.