Giulio Tremonti



Rassegna Stampa

- La Repubblica

Tremonti: Prodi è come Fazio sta creando un comitato d'affari

«In un Paese normale si assisterebbe al crollo di Prodi insieme a quello del suo consigliere, il "Colosso di Prodi". L'Italia è un grande Paese, è il governo Prodi che è un governo piccolo».

Dipinto in svariate occasioni come fautore dell' interventismo statale quando guidava l' Economia, stereotipo di Colbert all' italiana calato addosso, Giulio Tremonti assapora quella che può sembrare la sua rivincita e sviluppa il suo attacco politico. «Questo non è uno scandalo da Prima o da Seconda Repubblica italiana. E' un "affaire" da Terza Repubblica francese. Nei Paesi normali sono le società che informano il governo, non è il governo che informa i mercati. Palazzo Chigi sembra venir fuori come sede sociale di un comitato d' affari. E il carattere pasticcione e dilettantistico nella gestione dell' "affaire Telecom" non è un' attenuante. In questi termini Prodi mi ricorda molto da vicino Fazio. Incrocio tra business plan scritti in anglo-bolognese e comunicati stampa, tra dati sensibili e richieste impossibili: "mi ha promesso", "gli ho chiesto". Non mi dirà che il centrodestra, al contrario di questa maggioranza, si è tenuto asetticamente fuori dalla scena della grande finanza. «Assolutamente sì. Credo che la mia gestione del Tesoro non sia mai stata criticata sul lato degli affari e credo che, per fare un esempio, la storia della Banca d' Italia indichi una certa linearità di posizioni su cosa è interesse dello Stato e cosa non lo è». Ma aliena dagli affari non era certo la presidenza Berlusconi, vissuta in perenne conflitto di interesse. O non è così? «Non è così, e in ogni caso, durante quella presidenza la legge sul conflitto di interessi non è mai stata violata. Ma torniamo all' "affaire" Telecom. Emerge con evidenza la presenza a Palazzo Chigi di una pur se domestica classe di aspiranti oligarchi che cercano di estendere i loro interessi al dominio economico dell' attività di governo, fuori da ogni regola, fuori dal consiglio dei ministri, e come ci informa Prodi fuori dal controllo del Parlamento, dato che il premier ci fa sapere il suo rifiuto a venire in aula a parlarcene». A proposito di interventi del governo sulla grande industria fuori dai canali istituzionali, le ricordo che nell' autunno del 2002 lei partecipò ad una riunione nella villa di Arcore con Berlusconi e con il vertice Fiat nella quale si discuteva di un eventuale salvataggio statale. Se la ricorda? «L' incontro fu chiesto dall' azienda e non dal governo. E comunque da quel vertice non è uscita alcuna informazione. è stata una riunione assolutamente corretta, e non vi fu alcuna polemica». Veramente, fu lo stesso Gianni Agnelli a dolersene con i suoi. «Non risulta, e comunque non con me. C' è una enorme differenza tra il caso Fiat di allora e quello Telecom di ora. Tutto è stato corretto. Il governo non ha reso pubbliche informazioni sensibili come invece ha fatto Prodi. In ogni caso, non ci fu alla fine alcun intervento dello Stato in Fiat. Anzi, se posso dire, l' industria dell' auto italiana è riuscita a ripartire proprio perché quell' intervento non c' è stato». Eppure, durante la crisi Fiat, venne fuori un dossier della Goldman Sachs, più o meno con il beneplacito del Tesoro, in cui si ipotizzava l' ingresso di Fintecna in Fiat. Non è così? «Non è così. Non c' è mai stato un piano direttamente o indirettamente riferibile al governo, ed è per questo che non ci sono state polemiche». Per questo, neppure il dossier del consigliere di Prodi Rovati sulla vendita allo Stato della rete fissa è ufficialmente attribuibile al governo. «C' è un principio fondamentale, ed è quello della responsabilità oggettiva dei governanti. Chi governa risponde tanto del suo gabinetto quanto - e a maggior ragione - della sua cosiddetta "segreteria particolare". Un business plan non è un esercizio intellettuale e - come dice il nome stesso - non è neutrale. C' è stata un' indebita interferenza fatta su carta intestata della segreteria particolare della presidenza del consiglio. Prodi ha difeso il suo "dirigente responsabile" e quindi se lo è preso in carico. A questo punto la responsabilità politica per l' "affaire" o non c' è o è comune ai due. A giudicare dallo sviluppo del caso, la responsabilità politica c' è, e non tanto per il merito quanto per il metodo che indica. è tutto grave in questa vicenda: dalla nota di Prodi che informa i mercati su dati sensibili relativi a Telecom al rifiuto del premier di venire in Parlamento. é legittimo chiedersi cosa sarebbe successo se invece della segreteria particolare di Palazzo Chigi si fosse trattato del gabinetto di presidenza della Commissione europea. A Bruxelles la soluzione sarebbe stata una sola: le dimissioni immediate, non del "consigliere" ma del "presidente"». Veniamo alla crisi di Telecom. Non le sembra l' ennesimo esempio di un capitalismo debole, retto su minime quote di controllo e su enormi quantità di debiti? «C' è un dato di fondo che ha marcato la nostra storia economica, e che ha svuotato i principi della nostra Costituzione formale. La "gloriosa" Costituzione del ' 48 favorisce l' accesso del risparmio popolare alla proprietà industriale. Questo principio è stato contraddetto. I titoli di proprietà sono stati spiazzati, quelli di debito favoriti. Sulle azioni: nominatività, progressività fiscale, imposta di successione. Sulle obbligazioni: l' opposto. E così il finanziamento all' industria è stato basato sul debito e intermediato insieme dallo Stato e dalle banche. Il debito pubblico ha assorbito il risparmio privato. Il sistema di previdenza pubblica è stato ed è fondamentale ma ha escluso i fondi pensione. In compenso lo Stato ha fatto l' imprenditore con le partecipazioni statali assicurando con la stabilità della proprietà grandi visioni industriali. Al principio degli anni ' 90, questo equilibrio di squilibri si è rotto con l' avvento dell' ideologia delle privatizzazioni. è arrivato il momento di farne un bilancio. Le privatizzazioni riuscite sono state quelle parziali di Eni, Enel e Finmeccanica e quelle delle banche». Ma le ha fatte il centrosinistra, mentre voi non avete privatizzato nulla o quasi. Non è così? «A partire dal 2000 il ciclo europeo delle grandi privatizzazioni si è fermato. Abbiamo privatizzato, e credo bene, il possibile: i Monopoli. La trasformazione in società e lo spostamento fuori dal settore pubblico di grandi corpi economici sono stati poi parte di un grande processo che noi abbiamo avviato». E Telecom è stata invece una cattiva privatizzazione? «Ha costituito un contromodello. Un' industria strategica per il futuro del Paese è stata privatizzata mettendo l' interesse corto della cassa sopra l' interesse lungo alla stabilità della proprietà. Alla privatizzazione ha fatto seguito una delle più grandi acquisizioni a debito fatte in Occidente. Capitalismo esasperato: non la finanza al servizio dell' industria ma la finanza che si serve dell' industria. Debito non per creare nuovi impianti ma per cambiare la proprietà. E così in Telecom si è creato un debito eccessivo e squilibrato. Ma queste non sono considerazioni che può e che deve fare la politica. Se a monte la decisione politica è stata quella di andare sul mercato senza un piano per la stabilità della proprietà, a valle la realtà la fa il mercato, e la politica deve tacere. Nel 1998 ha parlato anche troppo».