Ha cambiato l'Europa. Ma va rivisto
Una drammatica compressione e poi una fantastica accelerazione della storia. Maastricht nasce così. Con luci e ombre (più luci).
1. La storia del «Patto» («Patto di stabilità e crescita», Maastricht 1992) si intreccia con la storia dell'euro. E questa con la leggenda (?) dell'unificazione tedesca. Il tutto può essere iscritto in uno straordinario quadrante in cui si incrociano passato e presente, politica ed economia, processi di lunga durata e improvvisi tornanti della storia, vero e verosimile.
2. 30 settembre 1989, il treno da Praga. Nel corso dell'estate, più o meno con il pretesto delle vacanze, migliaia e migliaia di tedeschi orientali passano le frontiere est e sud, verso Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia. A Varsavia, Budapest, Praga, le ambasciate della Repubblica Federale sono assediate, invase. Il 30 settembre, il governo federale annuncia a più di 4.000 rifugiati presso l'ambasciata di Praga che sono liberi di raggiungere la Repubblica Federale. Lo stesso giorno parte un lungo treno che li porterà verso la libertà. Da qui, tutto precipita. Il 7 ottobre Gorbaciov è a Berlino Est. Ovunque folle entusiaste urlano «Wir sind ein Volk» («Noi siamo un solo popolo»). Gorbaciov non garantisce niente a Honecker, il segretario comunista. Anzi. La Cancelleria federale è tempestivamente informata del contenuto del colloquio. E di qui i governi dell'Occidente: Washington, Londra, Parigi. Il 3 novembre il presidente francese Mitterrand dichiara di non avere nulla contro l'unificazione. Ma ha in mente un percorso lento e progressivo. Teme l'unificazione della Germania e, di riflesso, la marginalizzazione della Francia. Il 9 novembre a Berlino crolla il muro della vergogna. Il 19 dicembre, come se nulla fosse, Mitterrand si reca a Berlino Est, in visita ancora ufficiale. La linea cambia solo l'anno dopo. Il 19 aprile 1990 e poi il 7 dicembre, con la sigla di un documento congiunto franco-tedesco. Il 15 dicembre il Consiglio Europeo convoca due conferenze intergovernative, con il doppio obiettivo di unificazione politica e monetaria. Il disegno si completa il 7 febbraio 1992, con la firma del Trattato di Maastricht. Mitterrand ha sempre escluso lo scambio, tra unificazione tedesca e unificazione monetaria, con la conseguente fine del marco. Alla stessa domanda, Jacques Delors ha invece risposto enigmaticamente: «Les grandes idées peuvent parfois étre servies par les circonstances...».
3. In 500 giorni, prima una drammatica compressione e poi una fantastica accelerazione della storia. La caduta del Muro di Berlino ha sviluppato per orbite effetti multipli. Non solo ad Est e nel resto del mondo. Anche a Ovest. A Est, ha accelerato il crollo dei regimi comunisti. Globalmente, con la caduta delle vecchie «frontiere» politiche e la tecnologia sprigionata dall'apertura dei vecchi forzieri militari (a partire da Internet), ha unificato società e mercati. Ad Ovest, ha accelerato il corso della politica europea.
4. Ovest, Europa. A partire dagli anni 50, esaurita la fase ‹eroica», dei grandi principi di pace nell'Unione, è stata l'economia a essere dominante e strategica nell'ingegneria costituzionale europea. Se c'è stata nella storia e nella geografia del mondo un'area per cui si può dire che «la politica è nell'economia», questa è stata (ed è ancora) l'Europa: «Federate i loro portafogli, federerete i loro cuori». Una strategia basata su due dottrine. La dottrina del «gradualismo costituzionale», La dottrina del «piano inclinato»: messa su questo «piano», la «massa» dell'economia avrebbe fatalmente trainato la «sfera» della politica. Alla fine degli anni 80, lo scivolo sul «piano inclinato» della massa economica non aveva, tuttavia, ancora prodotto effetti specifici sulla sfera politica. Pur dopo un'intensa attività di «laboratorio», l'agenda della politica monetaria era ancora, in gran parte, da scrivere, nei suoi tempi e nei suoi metodi. In specie, il processo era ancora ostacolato dalla remora di numerosi e vari fattori-ostacolo: da residui di politica «nazionale», da dottrine economiche che negavano all'Europa la condizione di «ottima area monetaria». Si era, dunque, ancora in attesa di quello che in gergo diplomatico si chiama «colpo di manovella». Con il caso Germania, è invece venuto un colpo della storia: Io scambio necessario tra unificazione tedesca e unificazione monetaria. L'euro nasce appunto di colpo, per sostituire l'«impossibile» marco della Germania unita. Una Germania che, forte dei suo marco, sarebbe stata troppo forte e lo sarebbe stata proprio sul piano base dell'Europa: l'economia. È così che, ancora una volta, la politica ha determinato l'economia.
5. Ma resta, comunque, un'evidente squadratura, perché l'euro pur «determinato» (causato e/o accelerato) da fatti politici, comunque per suo conto «anticipa» la Costituzione europea. In questi termini, l'euro sembra invertire e contraddire proprio la storia delle monete. Una storia in cui la politica è sempre stata il prius, la moneta un posterius. Non per caso, ma pour cause, da sempre sulle monete si trovano effigi politiche. Effigi sovrane, eroiche, simboliche della vita civile e culturale dei popoli. Re, governanti, spade, aratri, navigatori e poeti. All'opposto, in Europa, dove l'economia sembra venuta prima della politica, vediamo sull'euro cose più banali: ponti e viadotti, archi e porte, non i padri fondatori o Dante, Cervantes, Goethe. E qui, in questa (temporanea) squadratura tra economia e politica, che entra in scena il «Patto» (1995), come ponte provvisorio tra la moneta e la Costituzione europea.
6. Se l'euro nasce, infatti, per «sostituire» il marco, il Patto nasce per sostituire «pro tempore» e «pro quota» un sistema di governo comune della finanza pubblica europea. Così, appunto, anticipando un più proprio, ma ancora non presente, meccanismo costituzionale. Per una ragione molto semplice. Perché è impossibile avere una moneta comune senza una «disciplina» comune, senza un criterio di guida delle numerose e varie finanze pubbliche che stanno sotto la moneta comune. È per questa ragione che il «Patto» è costituzionalmente essenziale.
7. Ma quali sono la filosofia e la meccanica politica del Patto? La filosofia che sta alla base (zero deficit pubblici, vincolo a contenere e/o ridurre i debiti pubblici non è politica zero. Ma è, all'opposto, politica pura. In specie, una politica che mira alla progressiva riduzione e standardizzazione dei bilanci pubblici e, di riflesso, alla progressiva riduzione del ruolo autonomo degli Stati nazionali. Con il Patto, questi hanno infatti tutte le libertà… tranne la libertà di aumentare discrezionalmente la dimensione del loro bilancio. Non poteva essere diversamente. Per tre ragioni essenziali. Perché la nuova politica economica, dovendo essere europea, non poteva essere se non sovranazionale. Perché la nuova politica economica europea doveva essere una politica di stabilità: perché, dovendo essere comune, doveva essere necessariamente neutrale. E perciò non «liberale» e/o non «socialista». È in specie solo in questi termini, e non per una specifica scelta politica, che la politica economica europea si è di fatto identificata con le ideologie che si sono affermate negli anni 80. Ideologie riduzionistiche del ruolo degli Stati. E comunque un fatto che, se pure per ragioni diverse, tutt'e due le politiche — la nuova politica economica europea e le ideologie riduzionistiche — convergono sulla scelta di ridurre il potere degli Stati nella manovra di finanza pubblica. In sé il Patto non è né di destra né di sinistra, è istituzionalmente sovranazionale e neutrale. Ma è un dato oggettivo che, per la sua funzione, il Patto ha compresso e comprime, dentro i suoi parametri rigidi, tanto le «vecchie» politiche socialiste di «deficit spending», quanto le «nuove» politiche liberali di «deficit per lo sviluppo». Basato sul principio di stabilità come base della crescita, su bilanci pubblici consolidati in equilibrio come base fiduciaria, il Patto ha, di fatto, sostanzialmente invertito il movimento del pendolo della politica economica, orientato per mezzo secolo verso la spesa pubblica in deficit. La meccanica che governa il Patto, via Ecofin (il Consiglio dei ministri economici europei), Commissione e Banca europea è, di riflesso, istituzionalmente «federale»: basata sulla formulazione di decisioni comuni e sul comune contrasto a eventuali singole unilaterali ipotesi di non rispetto e devianza.
8. In questi termini, finora il Patto ha funzionato sostanzialmente bene. Nessuno Stato europeo fa più grandi politiche di deficit spending. Non solo. Tutti gli Stati europei si sono sforzati di applicare e rispettare la disciplina comune. Nessuno Stato europeo ha intenzionalmente, provocatoriamente deviato o si è sottratto alla responsabilità delle comuni concordate procedure. Tutti all'opposto facendo sforzi per ottemperare. Ma, prima di analizzare questo punto e proprio per farlo correttamente, va notato che, negli ultimi tre anni (i primi tre anni dell'euro), nell'applicazione e nella gestione del Patto sono emerse alcune fondamentali criticità..
Prima criticità. Il Patto assume, come ipotesi di base, che tutti gli Stati siano in pareggio o in surplus di bilancio pubblico. Su questa base consente un deficit congiunturale del 3%. La criticità nel funzionamento del Patto è derivata dal fatto che un forte cattivo andamento dell'economia si è manifestato prima (e non dopo) il raggiungimento da parte di molti grandi Stati della condizione di equilibrio. Ciò ha sostanzialmente eroso il margine di flessibilità dei 3% previsto con prudenza dal Patto. Inoltre, un conto è seguire un percorso virtuoso verso il pareggio stando in buone condizioni economiche, un conto è farlo in condizioni cattive. Lo sforzo è doppio. E l'effetto di correzione può essere controproducente. Può peggiorare ulteriormente la situazione. Seconda criticità. L'estensione e accumulazione dei deficit. Non si è configurata solo l'ipotesi lineare di uno Stato in deficit. Ma anche la contemporanea e congiunta posizione in deficit di una vasta serie di Stati, che fanno insieme il 70-80% del Pil europeo. L'eccezione si è così trasformata in regola. E la quantità ha così invariabilmente fatto la qualità della politica di gestione del Patto. Terza criticità. La tendenza a far prevalere la forma sulla sostanza, le «procedure» su tutto il resto. Le procedure, tutte le procedure, possono e devono comunque e sempre essere solo il mezzo e non il fine. Non solo. Le procedure del Patto non sono «stupide» in sé. Ma possono diventarlo, per il modo in cui sono usate e vissute. Per contro, per farne un uso positivo, non è necessario essere intelligenti. E sufficiente evitare di essere «stupidi». Tipico il caso (2003) delle sanzioni proposte contro Francia e Germania. Francia. Nel 2004 la Commissione ha chiuso la procedura contro la Francia che è rientrata sotto il 3% pur senza sanzioni. Prova inequivoca che queste non erano necessarie. Il caso della Germania è in parte diverso. Alla base dell'extradeficit tedesco non c'è infatti un dato congiunturale, ma storico e strutturale: l'emersione dei costi dell'unificazione. Costi che, per un decennio (1990-2000), sono stati «finanziati» ancora con la forza e la capacità di attrazione del vecchio marco. In questi termini, il caso Germania trascende i problemi specifici di gestione del Patto e spinge verso una diversa e più ampia visione dello scenario europeo.
9. In sintesi, nonostante queste criticità, finora il Patto ha funzionato, centrando quattro obiettivi fondamentali: ha imposto il metodo delle decisioni comuni; ha interrotto le politiche di deficit spending; ha reso necessario e perciò consentito l'avvio, da parte degli Stati, di un forte ciclo di riforme strutturali. Soprattutto di riforme dei sistemi pensionistici; pur in presenza di forti criticità interne, ha proiettato sui mercati finanziari la necessaria base di solidità della nuova moneta (una solidità che, per la verità, pare ora... quasi eccessiva!).
10. Come tutte le cose, il Patto è perfettibile. L'esperienza, soprattutto l'esperienza dei primi tre anni dopo l' euro, spinge oggettivamente in questa direzione. Ed è un oggettivo merito del governo italiano, un governo che il Patto ha sempre rispettato, avere sistematicamente e non strumentalmente segnalato l'esigenza di una revisione, determinandone l'avvio. Nel merito, l'ipotesi massima di revisione è l'introduzione della cosiddetta «golden rule»: l'esclusione dal calcolo del deficit (e di riflesso del debito) di alcune voci di spesa pubblica: infrastrutture materiali e immateriali. Inoltre, evolutivamente: spese per ricerca, militari, sicurezza ecc. È un'ipotesi un po' complessa da realizzare, tanto politicamente quanto tecnicamente. Va, comunque, notato che una quota notevole delle spese per infrastrutture è già fuori bilancio o può essere portata fuori bilancio. Tanto a livello degli Stati, quanto a livello europeo (in specie ciò è possibile con l'Action Plan for growth proposto dall'Italia e già approvato a fine 2003). L'ipotesi di revisione minima (minima si fa per dire) non è invece sul calcolo dei parametri, ma sostanzialmente sulle procedure per applicarli. Procedure non più rigide e automatiche, ma da definire caso per caso e dunque Stato per Stato. Assumendo orizzonti temporali più lunghi, inserendo tra i criteri di valutazione anche il ciclo economico, le riforme strutturali ecc... Sarebbe un'ipotesi non «stupida», per due ragioni. Perché le procedure finora applicate ignorano molte delle complessità e delle specificità che sono via via proprie dei singoli Stati. Perché la rigidità assoluta e drammatica dei meccanismi annuncio produce, all'interno dei singoli Stati, effetti di stress che incidono negativamente sulla fiducia. Effetti di questo tipo non sono dunque solo inutili, sono controproducenti. Magari fanno il gioco delle opposizioni politiche interne, ma non quello dell'Europa. L'ipotesi subordinata, di attribuire il potere di decisione alla sola Commissione, tagliando fuori l'Ecofin, giusto o sbagliato che questo sia, non sta comunque nella logica e nella lettera politica «federale» propria della Costituzione europea. In questo schema — ipotesi di revisione massima o minima — l'Italia non ha nulla da temere. Come gli altri Stati, ha solo da guadagnare. Non vale contro neppure il rilievo critico sul livello del debito pubblico italiano. Livello che è infatti certo molto alto, ma in riduzione. A differenza di quello degli altri Stati, che è più basso, ma in forte salita. E in cui la struttura prospettica della spesa pensionistica è molto peggiore di quella italiana.
11. In conclusione. La revisione del Patto è necessaria e possibile. Ma non è più sufficiente. Va, dunque, evitato l'errore di considerarla di per sé «salvifica». E infatti ormai del tutto evidente che la crisi dell'economia europea non è congiunturale, ma strutturale. Non è nei conti pubblici, ma nell'economia reale. Non è in una parte, ma nel tutto. Ciò che serve non è dunque tanto o solo una (pur necessaria) revisione del Patto, ma una rivoluzione nell'economia. Nel lungo periodo (1989-2004) la crescita media della zona euro è stata intorno all'1,8%. Sostanzialmente e sistematicamente sotto il suo potenziale proprio, stimato intorno al 2,5%. Non solo. Nel breve periodo (2001-2004), mentre nel resto del mondo la crescita economica è stata vertiginosa, l'Europa si è piantata. Sta crescendo la velocità del mondo. Sta calando per contro, in una meccanica di stagnazione, la velocità relativa e assoluta dell'Europa. In questo scenario serve iniziare a pensare diverso, serve pensiero laterale:
a) una rivoluzione giuridica. Tutte le grandi rivoluzioni sono, del resto, rivoluzioni giuridiche. Le società e le attività europee sono «giuridicamente» bloccate da un sistema che replica modernamente i meccanismi tipici del Medioevo. La Gazzetta Ufficiale Europea del 2004 si sviluppa su 24.756 pagine, per 7,4 chilometri lineari. Le Gazzette nazionali non sono dimensionalmente, relativamente inferiori. Non si chiedono anarchia o anomia. Ma, all'opposto, la concentrazione giuridica. Il ritorno del diritto alla sua reale funzione moderna: il passaggio dal particolare all'essenziale. Come minimo dunque: pianificare ogni anno un numero fisso di nuove leggi, europee e nazionali. Così, automaticamente imponendo il criterio delle reali priorità;
b) una politica fiscale europea di attrazione di investimenti esteri. In sintesi: fare su scala europea quello che ha fatto l'Irlanda;
c) una politica keynesiana di investimenti pubblici europei, fatta sfruttando e capitalizzando a nostro favore proprio la forza (patrimoniale) dell'euro.
L'ipotesi è già stata fatta senza successo... anni fa (Delors, 1993), è stata ripresa ancora senza successo nel semestre di presidenza italiano dell'Unione, può (deve) essere nuovamente articolata e ripresa. Parlando direttamente ai cittadini europei. E nel Parlamento europeo.