Giulio Tremonti



Rassegna Stampa

- Corriere della Sera

Un patto tra le generazioni per cambiare la previdenza

«Prioritari i fondi pensione». «Con l'ipotesi massimalista di fare tutto subito c'è il rischio di non poter fare niente»

ROMA - Per Giulio Tremonti la spiegazione del perché la riforma delle pensioni sia necessaria sta tutta in una curva. E' il grafico degli effetti della riforma varata nel 1995 dal governo di Lamberto Dini. «Per capire il problema delle pensioni, basta guardare questa tabella», dice il ministro dell'Economia. «L'andamento della curva si sviluppa passando attraverso tre fasi. Fase uno, 2004- 2007: la curva è piatta, anzi lievemente decrescente, in percentuale sul prodotto interno lordo. Fase due, 2008- 2033: la curva sale invece, progressivamente. Fase tre, 2034- 2050 ed oltre: all'opposto, la curva scende, marcatamente».

Conclusione?
«E' evidente che il problema si concentra nelle due grandi fasi, nella seconda e nella terza. Nella fase 2008- 2033, la curva di spesa è insostenibile per lo Stato. Nella fase 2033-2050, la curva diventa, all'opposto, insostenibile per il privato. Prima, nessun governo, di destra o di sinistra, politico o tecnico, sarebbe capace di garantire il pagamento delle pensioni. Anche perché, alla crescita della spesa delle pensioni, si dovrebbe aggiungere la crescita della spesa per la sanità. Poi sarebbe l'opposto, la spesa per pensioni diventerebbe progressivamente insufficiente. Il sistema sociale salterebbe, se con l'avvio dei fondi pensione non fosse costruito al più presto un secondo pilastro. Primo pilastro, le pensioni pubbliche; secondo pilastro, le pensioni integrative. In sintesi, la riforma Dini, una riforma giusta nell'immediato, ha una doppia insostenibile insufficienza, che si manifesterebbe via via nel corso dei prossimi anni: prima è insufficiente per eccesso di spesa pubblica, poi è insufficiente per difetto di spesa pensionistica».

Sta dicendo che per un quarto di secolo si spenderebbe troppo, ma che in seguito ci sarebbe addirittura il problema opposto?
«Le ragioni per una riforma delle pensioni derivano dai numeri. I numeri non sono di centro, di destra, di sinistra. Sono numeri e basta. Ma vorrei essere ancora più chiaro. Per me la ragione per una riforma non è matematica, non è finanziaria. E' morale. L'alternativa è tra due scenari: la rottura dell'ordine sociale o la fiducia nell'avvenire».

Quando si è presa la decisione di fare la riforma?
«Tutto nasce a partire da gennaio, nelle lunghe notti dell'Eurogruppo, nel Nord Europa, quando dai computer esce la prova che, senza riforme strutturali, nessun governo europeo può più garantire il futuro. E' così che le riflessioni iniziano a scorrere: dalla demografia alla democrazia, dal calcolo statistico alla responsabilità morale che incombe su chi governa. Il welfare state, creato per portare l'uomo dalla culla alla tomba entra in crisi, perché funziona in modo asimmetrico: produce poche culle e poche tombe. Poche culle sono il male, prodotto dall'egoismo spinto da un consumismo deviato; poche tombe, sono invece il bene. In realtà la macchina sociale del welfare state ha combinato la sua azione con la diffusione ed il progresso vertiginoso delle tecniche sanitarie. Mai nella storia dell'umanità le speranze di vita sono cresciute di tanti anni, in così pochi anni. Il progresso ha certo origini remote, parte dal telaio industriale, che diffonde su scala di massa la biancheria e dunque l'igiene, ma poi accelera vertiginosamente, per arrivare ora all'acqua minerale ed a mille altre cose. Si è passati dalla guerra come igiene del mondo, a cose via via sempre più positive. La responsabilità dei governi è garantire che il bene attuale non si dissolva nel mondo futuro, evitare la rottura della struttura sociale, che sarebbe causata dalla crisi delle finanze pubbliche. Una crisi che colpirebbe soprattutto i più deboli. Perché, come diceva Marx: solo l'egoismo si trova bene dappertutto. La responsabilità che abbiamo davanti è garantire le posizioni di base possibili. Ripeto, garantire la fiducia nell'avvenire. Tutto dipende da questo. Solo se c'è fiducia nell'avvenire si fanno i figli e si fanno gli investimenti».

Sembra tutto logico. Ma c'è un piccolo particolare: come si convince la gente che bisogna mettere mano alle pensioni?
«Oggi, in Europa, la riforma delle pensioni è il problema politico per eccellenza. La democrazia occidentale nasce due secoli fa, sullo scambio tra doveri fiscali e diritti politici, tra tasse e voto: no taxation without representation.Ora il rapporto politico è rovesciato: è necessario ottenere il voto dei cittadini, su riforme che modificano le loro aspettative. Per questo è fondamentale che le difficoltà di fattibilità politica non prevalgano sulla necessità di una riforma delle pensioni. E' in questi termini che ha preso avvio un grande ciclo europeo di riforme: dall'Austria alla Germania, alla Francia. Ed ora in Italia».

Non ci dica che la famosa Maastricht delle pensioni, invocata da Berlusconi e che la Lega vedeva come il fumo negli occhi, esiste davvero.
«Esiste davvero. Non è stato un processo formale, ma sostanziale. Com'è del resto tipico in molti dei grandi processi europei, che si sviluppano soprattutto per spinte, coordinamenti, interazioni reciproche».

Cioè, tutta Europa era in realtà d'accordo per riformare le pensioni, ma nessuno l'ha mai detto ufficialmente?
«Ogni Paese ha la sua propria struttura sociale. Ogni governo sviluppa ed adatta di conseguenza la sua riforma strutturale. In ogni caso, nell'economia politica del ciclo europeo delle riforme strutturali, gli elementi comuni e generali prevalgono sulle specifiche nazionali. In comune ci sono gli obiettivi: la riforma del welfare state,non per ridurlo ma all'opposto per conservarlo. C'è la strategia politica: l'avvio a ridosso del 2003 di un grande ciclo di riforme strutturali per rilanciare il continente europeo. Ci sono infine le tecniche politiche e le scelte di fattibilità politica specifica».

Fattibilità politica specifica? Che cosa significa?
«La prima, è la scelta di fare riforme pure. Il consenso dei cittadini si ottiene infatti solo se la riforma delle pensioni è fatta, presentata, compresa dai cittadini, solo come riforma delle pensioni, senza altre finalità. Senza finalità altre, che magari sono in sé meritevoli, ma che, se aggiunte alla finalità di base, produrrebbero soprattutto effetti di confusione. E dunque, di riflesso, influirebbero pesantemente sulla fattibilità politica della riforma stessa. E' per questo che, nella strategia riformista, in tutta Europa si è fatta una prima scelta fondamentale: la concentrazione su di un solo obiettivo. La seconda scelta è quella di introdurre un'intercapedine sociale. Un primo tempo, in cui si decide la riforma: uno stacco, un secondo tempo, in cui la riforma produce i suoi effetti. Così da consentire ai cittadini una presa di coscienza, una progressiva prospettiva di adattamento. E' questo l'insieme di ragioni per cui le grandi riforme europee che ora sono in atto concentrano tutte i loro effetti strutturali soprattutto a cavallo tra questo ed il prossimo decennio».

Vale a dire: hanno tutti rinviato il problema per evitare lo scontro sociale?
«Le riforme strutturali non servono per fare cassa e, ripeto, non si possono realizzare se si vuole fare cassa per altre finalità. Come ho detto appena qui sopra, a proposito della fattibilità politica, a proposito del presupposto politico necessario per la riforma: il consenso democratico. Ed è così che tutto torna. E' proprio il non fare cassa che prova il carattere esclusivamente morale tipico di queste riforme, fatte non per calcolo di parte, ma per il bene comune. Che per me è la ragione unica della politica».

Veniamo al caso italiano.Come si pensa di procedere?
«Nel contesto italiano la riforma va concentrata sui due segmenti di crisi. Sul primo, 2008- 2033, dove la spesa per le pensioni è insostenibile per il pubblico bilancio. Sul secondo, oltre il 2033, dove la spesa per pensioni è all'opposto insufficiente per i giovani. Gli interventi necessari sono dunque due.Primo intervento. Identificazione a regime, a partire dal 2008, di un volume di contributi sufficiente non solo per promettere, ma per garantire a ciascuno la "giusta pensione". Una ipotesi che dall'esterno e dall'estero farebbe reputare come "strutturale" una riforma fatta in Italia potrebbe articolarsi come segue. Fatti salvi tanto i diritti acquisiti quanto i differenziali uomo- donna, potrebbero essere identificati, a ridosso del 2008, due requisiti: 40 anni di contributi o 65 anni di età. Vuol dire che, se hai 40 anni di contributi puoi andare in pensione anche se non hai 65 anni di età; che se hai 65 anni di età puoi andare in pensione, anche se non hai 40 anni di contributi.Eccezioni su settori, come quelli del lavoro usurante, o variabili sulla combinazione 2008 - 40 anni - 65 anni, possono fare parte naturale della discussione. Fermo solo il vincolo, non superabile, della effettività della riforma. Secondo intervento: a partire da subito, lo sviluppo della riforma Maroni, con il secondo pilastro, necessario per compensare, a favore dei giovani, l'andamento declinante e perciò insufficiente della spesa pubblica per le pensioni. Sono due interventi necessari. Nessuno da solo è sufficiente. Infatti, per quanto sia intenso l'intervento sul primo pilastro il sistema non reggerebbe, se non ci fosse anche il secondo pilastro».

I sindacati sono sul piede di guerra.
«Al sindacato ricordo che la riforma Dini è stata una riforma buona, ma nell'immediato. Lo stesso Dini, molto correttamente, ha dichiarato l'esigenza di un intervento ulteriore. L'idea che la riforma Dini sia sufficiente in assoluto e per sempre è un'idea che purtroppo è tradita dai numeri.Anche perché alla dinamica di crescita della spesa previdenziale si deve aggiungere la dinamica di crescita della spesa sanitaria. E' per questo che solo una riforma pensionistica strutturale può garantire la tenuta della nostra struttura sociale. L'alternativa alla riforma non sarebbe l'Eden, ma il caos. A danno dei più deboli».

La Confindustria la giudica una riformicchia.
«La riforma che stiamo ipotizzando è una riforma in sé strutturale. Mi pare che questo sia un dato oggettivo. Ciò che si chiede è però una riforma che non sia solo strutturale, ma anche attuale. Una riforma con effetti pieni da subito, per liberare risorse a sostegno della produzione. In questi termini, vedo riemergere l'alternativa storica, tra massimalismo e riformismo. L'ipotesi massimalista è "tutto e subito". La finalità è positiva, ma i rischi sono elevatissimi. Il rischio è che, per fare tutto, si finisca per non fare nulla. Il rischio è che, per fare la riforma massima, non si faccia niente. O si produca l'opposto di ciò che si vuole: paura e non fiducia. Crollo delle aspettative, della domanda, dei consumi. La fiducia nel futuro non si crea in ogni caso con la paura nel presente. Il riformismo è diverso. Non è tutto e subito, ma una cosa alla volta. La cosa giusta è fare la cosa giusta: non di più, non di meno. La riforma è un bene in sé, la cosa su cui concentrare gli sforzi. È proprio questa la filosofia politica europea. Purezza della riforma, senza addizioni e complicazioni che confonderebbero i cittadini. Intercapedine sociale, essendo obiettivo fondamentale, necessario e sufficiente, quello di far crescere la fiducia nell'avvenire. Altrimenti si corre il rischio che una terapia d'urto sia più urto che terapia. La strategia delle riforme non può sommare agli interventi strutturali le logiche congiunturali. L'ottica giusta in cui guardare la previdenza è quella infatti della lunga durata, della solidarietà fra le generazioni. Ripeto, se non c'è fiducia nell'avvenire non si fanno figli e non si fanno investimenti. Gli effetti economici della riforma ci saranno, dunque, ma in una prospettiva ampia e strutturale, di ciclo europeo. La riforma è comunque strutturale anche in un altro senso: si può avere la sicurezza che non ci sarà più bisogno di riforme. E, forse, è questa la vera riforma».

Riassumiamo. La riforma vera e propria parte dal 2008. Intanto si spera di convincere la gente a restare al lavoro con gli incentivi. E' così?
«No. Da subito parte il secondo fondamentale pilastro con i fondi pensione. Gli incentivi sono un esperimento, potenzialmente positivo. L'idea degli incentivi è anch'essa di derivazione europea. Per funzionare devono essere semplici e produrre il maggior aumento di stipendio che un lavoratore abbia mai avuto nella sua vita».

Anche nel centrosinistra qualcuno parla di necessità di intervenire sulle pensioni. Ritiene possibile che parte dell'opposizione sostenga la vostra riforma?
«Nella sinistra ci sono state, e ci sono, visioni morali ampie. Ci sono i presupposti perché queste non siano distorte dalla miopia politica. Ci sono presupposti perché le mezze coscienze non prevalgano sulle coscienze. Perché quello che stiamo discutendo non è solo materia di calcolo attuariale, è soprattutto materia di imperativo morale».