Giulio Tremonti



Rassegna Stampa

- L'Espresso

Tremonti's Plan

Giulio Tremonti, alias la Sfinge. La stampa estera saluta l’inizio del semestre made in Rome con un coro di fischi a Silvio Berlusconi. E a lui, al superministro dell’Economia perseguitato in casa dalla fama di primo della classe, non gli torcono un capello.

Anzi, il “Financial Times” gli recensisce a dovere il Piano per la crescita europea e lo ribattezza “Tremonti’s plan”. Per tre settimane va in scena il tormentone della verifica, con mezza maggioranza che avrebbe tanta voglia di rispedire a Pavia il professor Tremonti. E quello, nei weekend dei tutti contro tutti, si fionda a scarpinare sulle montagne del Cadore. Gli chiedi di Gianfranco Fini e ti guarda come un marziano. Rimpasto? Neanche a parlarne, dice lui. Ora che è ministro non polemizza più con nessuno. Lui che quando era all’opposizione ha trascinato il predecessore Vincenzo Visco in baruffe verbali di ogni tipo. Solo una domanda a bruciapelo sulla voglia di mandare tutti a quel paese gli fa scappare un secco: “A dimettermi non ci ho pensato manco un istante”.
Invece di dimettersi, nel caos totale, lei si estrania e butta giù un progetto da oltre 50 miliardi di euro l’anno con due ambizioni: ammodernare la reta infrastrutturale d’Europa e ridare slancio all’economia. Tutto normale?
“Ma certo. Quello che ho studiato è il lavoro di mesi, un piano elaborato in titale silenzio che nasce da una convinzione profonda: un ministro dell’Ecofin, e ancor più un presidente di turno, ha il dovere di introdurre idee e offrire visioni. Il mio è dunque un atto politico che nasce dall’analisi di una situazione particolare”.
Quella post 11 settembre, di una ripresa sempre annunciata e mai arrivata?
“Intanto precisiamo che non siamo di fronte a banali dinamiche di ciclo economico. Da tre anni abbiamo a che fare con un fenomeno più intenso e profondo, la cui percezione è stata lenta ma progressiva”.
Ossia?
“Vado per slogan. All’Ecofin di Goteborg, nel giugno 2001, il documento finale parlava di “european recovery”, ripresa europea. Un anno dopo, a Barcellona, siano passati dall’enfasi sull’ “american recovery”. E il mese scorso a Salonicco, per dirla con una battuta, siamo arrivati al “no recovery”.
La ripresa, in effetti, non si vede…
“Diciamo che non la si vede con sufficiente chiarezza. In ogni caso, è evidente che non possiamo utilizzare il consueto armamentario di tecniche e culture classiche. Serve un o sforzo ideologico nuovo. Del resto ogni fase economica di sviluppo si basa su un modello speciale. Negli anni Ottanta è stata la spinta neoliberista reaganian-thatcheriana. Negli anni Novanta il modello è stato impostato sul binomio globalizzazione-new economy…”.
E oggi?
“Il problema è che oggi un modello sociale di riferimento non ce l’abbiamo. Spetta alla politica elaborarlo e indicarlo. La mia idea è che servono investimenti pubblici e opere pubbliche”.
Una bella svolta, per un liberale doc come lei…
“è una scelta obbligata, non un’opzione. Una strada che oggi non ha alternative credibili”.
Ma prima di mettersi tutti quanti l’elmetto del genio pontieri e ricoprire la vecchia Europa di cantieri non si dovrebbero fare le famose riforme strutturali, come quelle delle pensione e del mercato del lavoro?
“Sulle pensioni non dico una parola, fedele alla regola che materia tanto delicata non può essere oggetto di annunci. Però faccio notare che in questi mesi l’Italia ha già messo a segno la principale delle riforme, quella del mercato del lavoro. Le riforme strutturali sono necessarie, ma purtroppo non sono sufficienti. E poi sappiamo tutti che sarebbe meglio realizzare quando l’economia è in crescita. Dobbiamo per prima cosa invertire le aspettative dei cittadini e delle aziende con un messaggio che costituisca un fattore di discontinuità”.
Una scossa alla New Deal?
“Qualcosa del genere, anche se è passato quasi un secolo. Talvolta si sottovaluta quanto il New Deal sia stato innanzitutto una grande operazione psicologica di massa. Un impulso forte. Una radicale inversione di tendenza nella società americana e non solo”.
Tutto regge se si trova una ricetta credibile…La sua qual è?
“Al tempo. Per arrivarci, armati di sano pragmatismo ci siamo prima confrontati con l’ipotesi più convenzionale chiamata “golden rule”: ossia escludere dal conteggio del rapporto deficit-pil (che deve restare entro il 3 per cento) tutta una serie di investimenti ritenuti meritevoli”.
Con tanti saluti alla trasparenza e alla correttezza dei bilanci. E in barba a q    uel Patto di stabilità che sarà anche “ un po’ stupido”, come una volta scappò detto a Romano Prodi, ma che resta un totem.
“In realtà, scorporare dai bilanci gli investimenti per le infrastrutture è ormai una soluzione che è persino inutile discutere nel merito, perché politicamente non è praticabile. Nel senso che attualmente non gode del necessario consenso politico in Europa”.
E su ripesca il vecchio piano Delors imperniato sulla spesa pubblica. Il socialista Delors…
“L’alternativa alla golden rule era proprio tirar fuori dai cassetti il piano Delors. Il glorioso piano Delors dico io. Fatto di grandi opere pubbliche, finanziate però con debito pubblico attraverso obbligazioni europee. Il socialismo stava tutto qui: nello strumento del debito pubblico. Ma anche in questo caso il problema è il consenso. Una serie di cauti sondaggi indica che oggi non c’è consenso politico su questo strumento. Il debito, in Europa, no può salire”.
E torniamo all’economia che non tira.
“Sì, ma bisogna tener conto anche di una motivazione più politica sulla quale si ragiona poco. Obbligazioni Ue evocano un debito europeo. Un debito europeo evoca un bilancio europeo. Bilancio europeo significa Stato europeo. E qui la risposta, specie del Nord Europa, diventa: no grazie. Per non dire dell’orrore che susciterebbe in Gran Bretagna”.
Quindi?
“Puntiamo su una terza via, che contiene alcuni elementi keynesiani e altri più puramente di mercato. Neokeynesiana è l’idea centrale, secondo la quale il mercato da solo non basta. L’impulso e l’indicazione degli obiettivi devono andare dalla politica al mercato, e non viceversa. Non è invece keynesiana la scelta di non gravare sul debito pubblico e di non utilizzare aziende di Stato. Questo piano si muove interamente sul mercato. Lo strumento è la Banca europea per gli investimenti (Bei), accanto alla quale le banche private avranno un ruolo determinante, anche se con modalità ancora da definire.  In questo senso Commissione e Bei devono presentare al Consiglio un piano tecnico. Noi ministri facciamo e faremo il lavoro politico”.
Tra quanto gli esiti di cotanto lavoro?
“Certamente le grandi opere dovrebbero avere un percorso guidato ed essere in qualche modo agevolate”.
Una sorta di corsia preferenziale, come quella che il governo ha allestito per l’Itlaia con la cosiddetta Legge obiettivo?
“Diciamo che in un mondo perfetto, anzi in un’Europa perfetta, vi sarebbe una Legge obiettivo per velocizzare la realizzazione delle grandi infrastrutture. Ma non dobbiamo dimenticare che anche nell’Unione bisogna fare i conti con differenti sensibilità politiche. A sinistra non abitano solo i keynesiani e i fautori dello stimolo pubblico all’economia, ma anche gli ambientalisti. E al centro si trovano spesso anche i burocrati e i loro protettori”.
Quanto costerà realizzare il piano Tremonti?
“L’obiettivo è ricondurre l’Europa a un rapporto tra investimenti per infrastrutture e Pil ai livelli di fine anni Ottanta, quando era all’1,5 per cento. Bisogna quindi recuperare almeno mezzo punto, ovvero 50 miliardi di euro. Ma se si arrivasse aun punto pieno sarebbe ancora meglio. In sostanza, questo piano vale dai 50 ai 70 miliardi l’anno”.
E in opere concrete cosa significa?
“Ci sono innanzitutto le infrastrutture transeuropee. Tra i 18 progetti prioritari troviamo il Ponte sullo Stretto, l’estensione del collegamento treno-autostrada Lione-Torino-Trieste-Lubiana-Budapest, l’asse ferroviario Genova-Rotterdam e quello Brennero-Napoli, le autostrade del mare adriatico-ionica e tirrenica. Poi ci sono le opere nazionali, che per noi italiani sono quelle contenute nel piano Lunardi, dal passante di Mestre al Mose di Venezia, tanto per citarne un paio”.
Viene fuori un’Europa tutta ponti, strade e ferrovie. E le infrastrutture immateriali, come scuola, formazione, ricerca?
“Il piano non è solo colate di cemento, acciaio e ferro. Riguarda anche nuove tecnologie e capitale umano. Capitale fisico e immateriale sono entrambi importanti. C’è solo una questione di know-how”.
Intende dire che sono più facili le colate?
“Dotarci di nuove infrastrutture è ancora più necessario con il processo di allargamento dell’Unione, ed è qualcosa che sappiamo fare. Il project-financing delle ferrovie, ad esempio, lo conosciamo fin dall’Ottocento. E pochi ricordano che la ricostruzione italiana venne fatta con le obbligazioni autostradali, senza una lira di debito pubblico. Quanto alle infrastrutture immateriali, non abbiamo le stesse conoscenze per ripagare gli investimenti attraverso il mercato. Ora, quando si parla di banda larga per la telefonia e altre nuove tecnologie, il mercato comincia già a vedere l’utilità di un coinvolgimento. Ma tutto si complica quando si parla di formazione. Detto questo, bisogna studiare il modo e lo faremo”.
Parliamo dei grandi protagonisti in Europa. Tra pochi mesi cambia il timoniere della Banca centrale. Il governatore della Banca di Francia, Jean Claude Trichet, è stato appena prosciolto dal caso Credit Lyonnais e non vi sono più ostacoli alla staffetta con Wim Duisenberg. Nelle cancellerie di mezza Europa si è tirato un sospiro di sollievo e con qualche malizia si sottolinea che il banchiere francese è più “politico” del Cerbero olandese. Lei cosa ne pensa?
“Conosco bene da anni Trichet, anche per motivi di ordine alfabetico: è da sempre mio vicino di banco in occasione dei seminari internazionali tipo Aspen o Ambrosetti. E posso dire che si tratta di una persona straordinaria, dotata di una grande cultura latina”.
In ogni caso il nuovo governatore dovrà vigilare su questo super-euro che suscita molte discussioni e anche qualche preoccupazione per la competitività delle aziende europee.
“Se c’è un dibattito al quale da ministro dell’Economia non posso partecipare è proprio quello sull’euro. Però vorrei far notare alcune coincidenze. Tre anni fa avevamo economie in crescita, bilanci pubblici che tendevano al pareggio e una moneta debole. Oggi rilevo che le economie europee attraversano una fase di criticità, alcuni bilanci si sono appesantiti ed allontanati dal pareggio, mentre l’euro viaggia a un rapporto elevato nei confronti del dollaro”.
Insomma, se l’Europa arranca è colpa della sua esuberante banconota?
“Di fronte alle coincidenze che ho indicato, mi limito ad osservare che oggi Isaac Newton avrebbe qualche problemino a stabilire il nesso tra causa ed effetto”.