Giulio Tremonti



Rassegna Stampa

- Panorama

La crisi viene da Oriente

"L'Europa deve proteggere il proprio mercato interno non solo con dazi doganali, ma anche con controlli alimentari, sanitari e ambientali sui prodotti in arrivo dalla Cina e dal Far East". Il ministro dell'Economia lancia l'allarme sull'invasione di merci di bassa qualità con costi di produzione anche dieci volte inferiori. La posta in gioco? Decisiva: scongiurare il declino dell'economia italiana e continentale.

Se la Cina produce ed esporta in Europa beni tipici del made in Italy a costi inferiori dieci volte a quelli italiani, per giunta con i marchi contraffatti, il problema economico è evidente: per le imprese italiane la competizione diventa impossibile, il declino inevitabile. Ma questo, sostiene il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, non è solo un problema economico, bensì politico. E investe ambiti più ampi di quelli nazionali, coinvolgendo le responsabilità di quei consessi, come il G7 e l'Ecofin, dove si decidono le politiche economiche dei maggiori paesi industriali dell'Occidente, in testa gli Usa e l'Europa. Ma G7 ed Ecofin stanno facendo abbastanza di fronte all'aggressione produttiva della Cina e dell'Estremo Oriente? Dopo l'ubriacatura della globalizzazione e del libero mercato mondiale predicata e attuata dalla Wto (World trade organisation), ora è forse alle porte una ripresa delle politiche di protezione delle produzioni nazionali, come ha chiesto Umberto Bossi? Nelle prossime settimane, forte del semestre europeo a guida italiana, Tremonti si propone di sollecitare i suoi colleghi dell'Ue a riflettere su questi temi. E alla vigilia della ripresa politica autunnale spiega il suo punto di vista a Panorama.

D. Ministro Tremonti, il primo leitmotiv della politica economica sarà dunque "attenti alla Cina"?
R. America, Cina e dintorni, sviluppano la loro politica economica in base a una doppia logica: proteggono la loro produzione nazionale, si proiettano con forza crescente sui mercati esterni. La posizione dell'Europa è asimmetrica e per certi versi suicida. Il suicidio ha una motivazione ideologica, insieme mercatista e welfarista. Da un lato l'Europa si apre totalmente ai prodotti stranieri senza prevedere forme di protezione dei propri prodotti sul mercato interno. E in questo si sublima l'assoluto dell'ideologia mercatista: il libero mercato insieme come mezzo e come fine. Dall'altro lato, il continente europeo si autospiazza, imponendo alle sue produzioni il costo di regole welfariste millimetriche e perfezioniste. È come la tela di Penelope: di giorno l'Europa predica e si autopredica la competizione, di notte tesse una coltre che soffoca le imprese e il lavoro.

D. Lei è stato il primo uomo politico e di governo occidentale a porre nelle sedi internazionali il problema della competizione impossibile con la Cina. Come ha maturato le sue convinzioni?
R. La prima percezione del problema l'ho avuta alcuni anni fa, quando ho pubblicato per la Mondadori un saggio intitolato Il fantasma della povertà. Era il 1995 e raccontavo come la povertà stesse arrivando in Occidente, dove si combinavano salari orientali e costi occidentali. Salari livellati dalla competizione salariale internazionale, costi elevati per conservare le strutture del welfare europeo. Una cascata di fenomeni destabilizzanti.Ma quella, tutto sommato, fu una specie di profezia. In seguito ho continuato a studiare il fenomeno, finché sono passato alla verifica politica sul campo.

D. E che cosa ha scoperto?
R. Durante un convegno a Pesaro con gli operatori economici, al quale ero andato con Umberto Bossi, ho affrontato per la prima volta il problema generale della competizione con il Far East e, per fare un esempio semplice e concreto, ho tirato fuori il caso del marchio europeo C E clonato dai cinesi. In Europa il marchio C
E è posto a garanzia dei prodotti fabbricati nel rispetto di tutte le leggi, da quelle del lavoro a quelle sanitarie e ambientali, fino alla tutela dei minori. I cinesi applicano un marchio quasi identico sui loro prodotti per indicare China Export. Insomma, i cinesi copiano non solo i prodotti, ma anche i marchi.

D. Risultato?
R. Fui subissato dagli applausi. Il segnale per me era chiaro: il problema della competizione impossibile con la Cina era serio e molto sentito dagli operatori economici. Così cominciai a parlarne anche nelle sedi internazionali.

D. Come è andata?
R. All'inizio so che molti mi hanno preso per un politico stravagante. Gli sherpa degli altri paesi chiedevano ai miei collaboratori: ma cosa voleva dire il tuo ministro quando parlava della Cina? La svolta è arrivata al G7 di Bercy, Parigi. Intorno al tavolo c'erano i ministri economici dei sette maggiori paesi industriali. Nel documento conclusivo proposi di sostituire l'espressione tradizionale di sostegno al "free trade" (commercio libero) con "fair trade" (commercio corretto). L'argomento che ho sostenuto era che l'assolutismo del libero commercio doveva essere in qualche misura moderato. Sul principio furono tutti d'accordo. Il problema era l'espressione "fair trade", che negli Stati Uniti significa dazi e quote: troppo protezionistica. Così è passata la formula "rules based trade", commercio basato sulle regole. Il che, in sostanza, è ciò che diceva Adam Smith: il commercio è il rispetto di regole oppure non è.

D. Ricorda la data di quel G7?
R. Certo, è nei miei appunti: 22 febbraio 2003. Quel giorno, in un documento ufficiale del G7, la curva ideologica del mercatismo ha cominciato a flettere.

D. Lei parla sovente di mercatismo: a che cosa si riferisce?
R. È bene fissare alcune date storiche. 1989, caduta del Muro di Berlino: è il big bang che dà il via a una nuova era di integrazione commerciale del mondo sostenuta dalle nuove tecnologie informatiche. Il commercio internazionale, i pc e le telecomunicazioni c'erano anche prima, ma è il 1989 che integra il mondo sul piano politico e apre i forzieri delle tecnologie militari, facendo decollare internet. In un decennio l'accelerazione è stata impressionante. E nel 1999, al summit della Wto di Seattle, si è aperto il vaso di Pandora del libero commercio mondiale, con la promessa di ricchezza per tutti. Così, almeno, la vedevano i mercatisti.

D. Altri invece temevano che il vaso di Pandora si sarebbe trasformato presto in una lampada di Aladino: sfregandola, sarebbe comparso il fantasma della povertà.
R. La verità, a ben vedere, sta nel mezzo: si tratta di combinare l'integrazione mondiale del mercato con gli strumenti e una tempistica necessaria per evitare
squilibri troppo violenti.

D. Scusi se insisto, ma perché attribuisce una valenza negativa al mercatismo?
R. Seattle è stata, tra l'altro, un'iniziativa tipica dell'Ulivo mondiale: l'officiante era Bill Clinton, nella platea dei chierici, per l'Italia, c'era il ministro del Commercio estero Piero Fassino, che sposò senza riserve la tesi del vaso di Pandora. Così l'ex comunista Fassino è passato dal dogma di Mosca al dogma mercatista di Seattle, che è l'estremizzazione della dottrina liberale del libero mercato. Il risultato politico è evidente: oggi a difendere il lavoro e le imprese dal mercatismo della Wto è la destra, non la sinistra. E se Karl Marx fosse vivo oggi...

D. Alt, questo l'ha già detto, lo ricordo bene: Marx non si occuperebbe del 3 per cento di fabbisogno, ma della Cina.
R. Giusto. Ma mi consenta di aggiungere un concetto. Marx ignorerebbe tutti i fenomeni marginali che piacciono tanto alla nostra sinistra, ma si occuperebbe del più colossale fenomeno di migrazione industriale mai avvenuto nella storia, quello dai paesi occidentali verso la Cina, senza precedenti per intensità e quantità.

D. Proprio lei, che è liberale, sta mettendo in dubbio i principi del liberismo?
R. No, io contesto l'assolutismo ideologico dei mercatisti. Sono loro a non vedere la realtà, ovvero che il libero mercato non è una formula salvifica assoluta. Di fronte alla sfida orientale, si deve capire che il libero mercato non è solo una opportunità, ma una realtà che genera anche una massa di problemi che vanno governati.

D. Torniamo alle sedi internazionali. Il G7 che ha sostituito "free trade" con "rules based trade" è rimasto un fatto isolato?
R. No, anche all'Ecofin c'è stata una novità interessante. Tra le priorità indicate nel programma del semestre Ue a guida italiana, il testo preparato dal mio ministero diceva all'ultima riga: "Avvio degli studi per la difesa della produzione nazionale". Il documento è stato approvato. E la cosa incredibile è che nella traduzione inglese
non c'è "defense" della produzione nazionale, ma "protection". Francamente, non so quanto consapevole sia stata la traduzione, ma certamente lo è stata l'approvazione.

D. Nella Commissione Ue come la pensano? In una recente intervista Pascal Lamy, commissario Ue al Commercio, ha detto di non condividere le sue posizioni sulla Cina.
R. Di sicuro nella Commissione Ue si è aperto un dibattito sull'argomento. E questo non è un merito di poco conto per l'Italia, per la sua capacità di leadership. Un commissario molto autorevole, l'olandese Frits Bolkestein, liberale, mi è parso assai interessato. Quanto a Lamy, mi sembra il tipico custode di un mercatismo europeo che, anziché fare competere le nostre imprese, rischia di spiazzarle. Lamy sostiene che il libero commercio mondiale, a lungo andare, porterà vantaggi a tutti. Anche a
chi vuole esportare in Cina. Ci sono due illusioni destinate a cadere. La prima è che la Cina possa diventare un grande mercato per i prodotti europei. Un abbaglio. È vero che l'Europa è invasa dai prodotti cinesi, ma è altamente improbabile che la Cina diventi terra di conquista per il made in Europe. Se i prodotti cinesi sono buoni e a buon mercato per gli europei, a maggior ragione lo saranno anche per i cinesi. Ai prodotti made in Europe in Cina saranno riservate tutt'al più aree di nicchia o marginali. La seconda illusione è che l'Europa conservi il monopolio della tecnologia, riservando alla Cina produzioni di massa a bassa intensità tecnologica. La realtà è che la
potenza scientifica della Cina sta salendo vertiginosamente.

D. Ma in concreto per difendere la produzione e il lavoro nazionale che cosa suggerisce di fare?
R. L'Europa dovrebbe fare ciò che l'America, patria del liberismo, sta facendo da tempo con successo. Ovvero proteggere il mercato interno e la sua produzione nazionale non solo con i dazi doganali, ma anche con strumenti indiretti, come i controlli alimentari, sanitari, ambientali e di tutela sociale sui prodotti in arrivo
dall'Estremo Oriente.

D. Insomma, sabbia negli ingranaggi dei cinesi?
R. Perché no? Altrimenti, lo ripeto, la competizione è impossibile. L'imprenditore italiano ha l'articolo 18, mentre il suo competitore cinese non ha vincoli. Le nostre imprese devono rispettare la legge 626 sull'ambiente, mentre quelle del Far East inquinano senza limiti. Da noi si producono rubinetti di qualità, conformi a costosissimi standard europei, mentre in Cina si fabbricano e si esportano in Italia rubinetti fatti con materiali di risulta, con uranio impoverito. Se da noi il costo è cento e in Cina è meno di dieci, puoi fare riforme fiscali estreme, aliquota zero sugli utili, ma se gli utili non ci sono più a che serve?

D. L'euro forte aiuta od ostacola?
R. Nel mondo ormai ci sono solo due monete, l'euro e il dollaro. E la debolezza del dollaro Usa, al quale sono legate le valute asiatiche, fa sì che l'aggressività dei prodotti del Far East nell'area dell'euro sia ancora più forte. Anche su questo, sui cambi, dovremo riflettere in sede europea.

D. La competizione cinese resterà ai livelli più bassi della tecnologia, puntando come adesso su settori come il tessile, le calzature e la rubinetteria, o salirà?
R. Credo che la Cina sia come il Giappone di trent'anni fa. In poco tempo la sua capacità tecnologica crescerà enormemente, poiché la Cina non solo dispone di una manodopera straordinaria per quantità e qualità, ma anche di un'intensità scientifica e culturale impressionante. Tra pochi anni potrebbe non esserci più neppure
un televisore prodotto in Europa.

D. Non teme conseguenze negative per il commercio italiano in Cina?
R. Non è più una questione di rapporti bilaterali. Il fenomeno Cina va visto in un contesto universale. Oggi si parla di declino dell'economia italiana. Ma passare dal miracolo al declino in pochi anni non è normale, per un declino di solito ci vogliono alcuni decenni. Invece, dopo Seattle, c'è stata una fortissima accelerazione,
che è il risultato di un'aggressione commerciale senza regole. Porre questo problema e agire, se posso dirlo, richiede una certa dose di visione e di coraggio politico. Ora l'Italia deve investire moltissimo in competizione e l'azione del governo sarà in questo senso. Ma i tempi sono drammaticamente stretti e l'azione deve essere
duplice: da un lato investire per competere, dall'altro regolare la competizione.

D. Vuole essere ricordato come l'uomo politico che ha fermato la Cina?
R. Assolutamente no. La Cina è un grande paese e nel mondo giocherà una partita sempre più grande. Il mio obiettivo è di convincere, di impedire che l'Europa consumi la sua eutanasia.