Giulio Tremonti



Rassegna Stampa

- La Stampa

Il mio new deal

GIULIO Tremonti, il primo ministro nella storia italiana a guidare un dicastero che concentra Tesoro, Finanze, Bilancio, Mezzogiorno, Partecipazioni Statali, l’uomo che Prodi accusa implicitamente di vegliare le spoglie del “pensiero unico” e Cofferati dalla Pirelli definisce apertamente il vero ideologo della destra.

GIULIO Tremonti, il primo ministro nella storia italiana a guidare un dicastero che concentra Tesoro, Finanze, Bilancio, Mezzogiorno, Partecipazioni Statali, l’uomo che Prodi accusa implicitamente di vegliare le spoglie del “pensiero unico” e Cofferati dalla Pirelli definisce apertamente il vero ideologo della destra, sorride: “Cofferati che lavora alla Pirelli? Mi ricorda un pensiero di Roland Barthes sul merletto come parodia del lavoro recitata dalle signorine borghesi dell’Ottocento, una finzione del lavoro. Dal lavoro come tragedia al lavoro come commedia. Pensiero unico? Non nel caso di Prodi. Ma troppo spesso è stato più unico che pensiero”. Quel che pensa Tremonti sulla fine del pensiero unico e dell’era delle certezze si trova in un saggio pubblicato da Mondadori nel ’94, “Il fantasma della povertà”. Questo l’incipit: “La povertà del mondo ha cominciato a muoversi, da Sud verso Nord. Per contro, attirata da masse di manodopera a basso costo, la ricchezza dell’Occidente ha cominciato a migrare, da Ovest verso Est”. “Mentre scrivevo quel libro –dice il ministro- c’erano pellegrini in cammino verso la City. Sacerdoti dell’utopia delle privatizzazioni, parroci di una retorica domestica come quella della casalinga “globalizzata” di Voghera che trova il salame ungherese al supermarket”. Per Tremonti “il Forum di Firenze è certamente un fenomeno sociale rilevante. È un mondo di valori: quelli del Forum sono rimasti a sinistra gli unici a parlare di valori e questo è positivo, perché ai valori l’ideologia costituzionale della sinistra ha rinunciato, a favore dei beni. E siccome le parole hanno una forza ideologica tremenda, parlare di beni invece che di valori svela un’ossessione, la mercificazione dell’esistente. Da parte della sinistra la lezione mercatista è stata appresa troppo di recente per essere abbandonata troppo improvvisamente. Un errore che può fare la sinistra è considerare questi ragazzi come no global. Sono global a ogni effetto. Un altro errore è considerarli in termini di massa. Non sono un blocco soreliano, sono tutt’al più somma di individui. Siamo passati dall’Arbeiter al computer, dalla massa all’individuo. La sinistra postcomunista questo ha enormi difficoltà a capiprlo, non è nel suo patrimonio culturale. Ad un pensiero unico sono arrivati, da un pensiero unico erano partiti. Per capire il Social Forum bisogna guardare a un mondo di valori più cristiani che comunisti”. Tredici anni fa, Tremonti scrisse sul Corriere della Sera una serie di articoli sulla fine dello Stato nazione e sulla smaterializzazione della ricchezza come conseguenza della nuova geopolitica. “Ora l’11 settembre ha radicalizzato una cascata di fenomeni già in atto e ha dimostrato l’infondatezza di quello che per anni i neofiti del capitalismo conformista avevano predicato: ha dimostrato che la vita non può essere stilizzata in un grafico, che l’econometria non è la filosofia, che la vita è fatta da fedi, passioni, sentimenti, virus”. Lo choc di New York ha enfatizzato crisi latenti altrove. “In pochi anni sono scomparsi due continenti. L’Africa non fa più notizia. Il Sud America alterna tentazioni autarchiche  e alleanze globali, finanza moderna sommata a politica arcaica. Scompaiono le strade, le reti dei commerci. Sulle mappe americane sono tracciate rotte con l’avvertenza: banditi. Tornano le aree proibite, si riprende come nel Medioevo a scrivere: hic sunt leones. A dieci anni dal crollo del Muro, crollano le certezze di una crescita continua. E tra le macerie dell’identità comunista e dell’illusione mercatista si aggirano senza pace gli apprendisti, i neofiti, i reduci dal pellegrinaggio alla City che ora imboccano le strade di Firenze. Sembrano avere più followship che leadership. Ripetono stereotipi privi di senso. Sono stati aspirati dal vortice della modernità. Hanno rinnegato la storia senza capire il futuro. Non colgono un collegamento che non è solo un “ post hoc ergo propter hoc”, ma deriva da un nesso causa-effetto che si stabilisce a catena tra fatti solo apparentemente sconnessi, tra l’11 settembre e la crisi della Enron, e così via. Una questione di crisi di fiducia”. Sostiene Tremonti che “la sinistra sbaglia se pensa a una destra pret-a-porter”; sbaglia chi, come Cofferati, lo accusa di voler sostituire la solidarietà con la carità, l’intervento statale con la filantropia. Il ministro cita come esempio la sua idea della Detax, lanciata con un articolo sulla prima pagina di Le Monde dell’11 settembre, a proposito della solidarietà verso il Sud del mondo. “La sinistra vuole invece la Tobin Tax. Una legge ideologica, che interviene verticalmente e discrezionalmente, e dirotta il flusso fiscale dalla finanza ai governi. Noi pensiamo alla Detax: l’esclusione delle imposte della quota di consumi che la società destina al Terzo Mondo. Il fine è lo stesso, trasformare il male in bene. Ma la Detax interviene in modo orizzontale, arriva direttamente sul territorio, alla popolazione. È un’idea che si sta facendo strada in Europa”. La diagnosi di Tremonti parte da quella che si definisce “l’utopia delle privatizzazioni”, che in Italia non hanno dato vita a public company ma molto spesso a passaggi di proprietà segnati ogni volta dalla crescita dell0indebitamento, mentre le aziende rimaste in parte sotto il controllo del Tesoro godono di buona salute. “Anche da qui di deve cominciare per capire il “declino” del paese”. E contro il “declino” Tremonti elabora quella che pare quasi un’agenda. “La nostra può essere anche la direzione di un nuovo New Deal. Usare lo Stato. La destra non sta ferma. In Italia, in Europa, in America. Se pensano che la destra rifiuti lo Stato, non hanno capito né la destra né lo Stato”. Il ministro dell’Economia non ha timore a parlare di “neocolobertismo”, non considera eresia l’ipotesi di un “neoprotezionismo europeo”, finalizzato non a ostacolare gli scambi ma a correggerne le asimmetrie. Il mercato per Tremonti non è un “idolo”: “se in Oriente producono a costo 10 una valvola che a noi costa 100, non c’è competizione possibile, non c’è riduzione di imposta che tenga. Occorre intervenire. Un tempo si sarebbe reagito con l’imposizione di dazi. Ora di tratta di imporre condizioni di reciprocità. È fondamentale stabilire una reciprocità tra prodotti e doveri i paesi che fabbricano prodotti ma non impongono ai produttori i doveri sociali stanno spiazzando l’Europa, è un’asimmetria che bisogna correggere. Non per negare, ma all’opposto per stabilire condizioni di mercato. Sarà, dovrò essere una partita fondamentale”. Tremonti non lo dirà mai esplicitamente, ma l’immagine cofferitana dell’ideologo non gli è estranea: dalla legge obiettivo sulle grandi opere alla legge sull’immigrazione e quasi tutti gli altri materiali che hanno composto il programma della Casa delle Liberà sono farina del suo sacco. Il Tesoro è diventato in questi mesi un potente centro di elaborazione politica e culturale, ospita conferenze di Posner, Pejovich, Vartin, decide nomine eterodosse come quelle di Siniscalco, Barca, Grilli, Turicchi, è al centro di una rete sempre più fitta di contatti con le “cancellerie economiche” d’Europa. Anche così è nata l’idea delle “correzioni sul mercato a opera dello Stato”. Tremonti accenna appena di sfuggita a un progetto allo studio in sede internazionale, il “Plan B”, che farebbe passare il New Deal da una fase di studio ed elaborazione a una fase di interventi e riforme; ma sembra quasi pentito di averne citato il  nome, e cambia argomento. L’accusa nei suoi confronti è di populismo. La replica: “Aumentare le pensioni minime, diminuire le imposte sui redditi bassi non è populismo. La riduzione delle imposte sui redditi bassi è la contropartita della riforma del mercato del lavoro. Non per caso è la raccomandazione fatta nei grandi orientamenti di politica economica europea di Barcellona. È un modo per ridurre il cuneo fiscale. La filosofia politica delle nostre due prime finanziarie è quella della protezione sociale, indispensabile in una fase che dopo l’11 settembre era evidentemente una fase di progressive criticità”. Però siete stati troppo ottimisti. “Se fossi ancora professore le direi che questo significa non avere capito del tutto il  funzionamento dei cosiddetti stabilizzatori automatici”. Cosa intende dire? “Che tutto il “buco di entrate” derivante dallo scarto tra crescita potenziale e crescita reale non deve essere coperto con manovre correttive. Chi parla di “trimestrale di cassa” utilizza un “topos” della Prima Repubblica, e con questo lascia la sua impronta digitale. Chi punta sulla ruota politica della manovra correttiva punta sul bingo sbagliato, non riserva sufficiente attenzione ai meccanismi tecnici del patto di stabilità e non ha proprio idea di quello che sta succedendo in Europa, dove la posizione italiana è e sarà reputata e rispettata. Fuori dalla congiuntura noi disponiamo dei mezzi culturali per correggere le asimmetrie del mercato, per progettare se del caso un nuovo New Deal”. E se si aprirà la discussione su nuove forme di democrazia economica, quali la partecipazione dei lavoratori agli utili e alla gestione delle imprese, “è da questa parte che accadrà, e non da quella. A sinistra sono ancora fermi ad un idea dogmatica e domestica dell’Antitrust, che è certo necessario ma non più da solo sofficiente. Noi siamo alla dialettica prodotti-doveri, al neocolbeertismo, al New Deal, alla correzione delle asimmetrie dei mercati: tutti tempi che sono stati scritti per tempo della nostra agenda. Noi crediamo al mondo dei valori e non intendiamo trasformarli in beni”. Il governo non si fa dettare il programma dalle imprese; “attua il suo programma, in modo molto poco dogmatico. La sinistra è rimasta alle prese con i suoi scheletri: le masse, le paure. Come tante altre volte nella storia, attende salvifica la crisi del capitalismo, nell’illusione che questa le porti la vittoria. Come tante altre volte nella storia, non avrà la vittoria. È la borghesia che nella storia ha sempre vinto”.