Giulio Tremonti



Rassegna Stampa

- Il Giornale

La tigre narcotizzata

La tigre del debito non è stata abbattuta. E’ stata solo narcotizzata e trasportata negli scantinati. Ma il narcotico sta finendo.

La tigre del debito non è stata abbattuta. E’ stata solo narcotizzata e trasportata negli scantinati. Ma il narcotico sta finendo. E così, se il ministro Amato conserverà l'abitudine di una saltuaria domenicale frequentazione dei locali del ministero del Tesoro, come il 13 settembre 1992, quando ha svalutato la lira, o come il 31 ottobre 1999, quando ha venduto l'Enel, potrà trovarsela davanti. E sarà davvero un bel match. Nel 1992, prima che iniziasse il «risanamento» dei conti pubblici, lo stock del debito pubblico era 1.634.371 miliardi di lire, mentre il Prodotto interno lordo (Pil) era 1.517.598 miliardi di lire. Il rapporto debito/Pil era conseguentemente pari al 108 per cento. A fronte del debito pubblico, idealmente a garanzia e tra l'altro utilizzabile per gestire al meglio il debito medesimo, lo Stato aveva un enorme patrimonio industriale e finanziario: il monopolio dell'energia (Eni, Enel), delle telecomunicazioni (Telecom), due terzi del sistema bancario, vastissimi «portafogli» di crediti e di immobili, e altro ancora. Non è un giudizio. E’ una constatazione. Nel 1999, dopo otto anni di «risanamento», lo stock del debito pubblico è 2.452,219 miliardi di lire, mentre il Pil è 2.119.463 miliardi di lire. Il rapporto debito/Pili è conseguentemente arrivato al 116 per cento. In sintesi: dopo il «risanamento» il debito pubblico è cresciuto quasi di 1 milione di miliardi (in un così breve periodo, solo otto anni, si tratta certamente di un record mondiale), la produzione industriale è andata in stallo, i fattori che hanno rallentato (si fa per dire) la crescita del debito pubblico e cioè tasse, tassi e privatizzazioni sono terminati o a termine. I «risanatori» usano dire che il problema del risanamento è complesso e sofisticato, configurandosi come un problema di velocità relative. Il debito pubblico sarebbe cresciuto, ma a una velocità relativa inferiore a quella cui sarebbe cresciuto se non fossimo arrivati «noi». Sia permesso dubitarne e comunque di notare che il rallentamento della velocità di crescita del debito è solo temporaneo. Il debito pubblico è infatti destinato a salire con velocità crescente, perché le tasse sono al top, perché i tassi risalgono e soprattutto perché il patrimonio pubblico vendibile si sta progressivamente esaurendo. Ma vediamo le cose più da vicino. Nel periodo tra il '92 e il '99, il focus dell'azione politica italiana si è concentrato sull'obbiettivo dell'inclusione della lira nell'euro. Contrariamente alla propaganda, l'euro non è mai stato né di sinistra né di destra. A riprova il fatto che il governo Berlusconi ha varato una finanziaria per l'euro da 50mila miliardi, inferiore alla prima finanziaria del governo Amato, ma enormemente superiore a quelle dei governi «europei» di Ciampi e Dini. L'inclusione della lira nell'euro c'è stata certamente per la reliability di Amato, Ciampi e Prodi, ma soprattutto per tre cause meno antropomorfe e marxianamente più fondamentali: tassi bassi, tasse alte, Germania. Più in dettaglio:
a) la globalizzazione, accelerata vertiginosamente in questo decennio, ha prodotto in tutto il mondo una caduta verticale dei tassi di interesse. Ne ha beneficiato automaticamente e fortemente uno Stato enormemente indebitato, come quello italiano;
b) la tassazione è salita, dal 1992 al 1999, di oltre il 50 per cento (615.354 miliardi di tasse nel 1992; 927.764 miliardi di tasse nel 1999);
c) l'Europa (la Germania) ha infine, e per complesse e affascinanti ragioni «geopolitiche», interne ed esterne, basato la formula politica costitutiva dell'euro sulla scelta della massima possibile estensione.
Ne è derivata l'inclusione di tutti, compresa l'Italia, e l'esclusione solo della Grecia (che per suo conto ha un Pil pari a quello di una grande provincia veneta). Per essere chiari: il modello originario dell'euro a due velocità (con la lira «pro tempore» fuori dall'euro) presupponeva, tra l'altro, la stabilità del rapporto tra inclusi ed esclusi. Stabilità che non ci sarebbe stata, tra l'altro, a causa del rischio di secessionismo leghista e della conseguente possibile destabilizzazione-competizione Nord-Sud, Italia su Italia, e Italia versus Germania. Per essere ancora più chiari: l'Italia non ha integrato il parametro del 3% e perciò è entrata nell'euro. Ma è stata (geo) politicamente inclusa nell'euro (prius) e, per questa ragione, ha contabilmente integrato il parametro del 3% (posterius). La scelta politica di includere la lira nell'euro ha in specie eliminato quel residuo negativo spread di interessi, o «premio di rischio», che ancora si chiedeva sui titoli in lire. Non essendoci più la lira, non c'era più ragione per continuare a chiederlo. E così che si è prodotto quello che un banchiere centrale europeo ha definito come effetto specchietto retrovisore: «L'Italia ci ha raggiunti improvvisamente, con la velocità di una Ferrari che arriva da dietro». Gli effetti economici e sociali di un 3% integrato in questo modo si stanno evidenziando. Tassi bassi (attualmente tendenti a zero, in termini reali) cancellano la funzione sociale del risparmio e deprimono la domanda. Tasse alte incrementano il flusso di ricchezza che va dal privato allo Stato, che al suo interno ne distrugge una quota rilevante, così creando minus valore. Nel durante, non sono state realizzate significative riforme dello Stato e dei suoi meccanismi di spesa. La spesa pubblica reale per beni e servizi, al netto degli interessi, ha conseguentemente continuato a crescere. L'effetto finale è che, in Europa, l'Italia ha il maggiore debito pubblico, il più basso tasso di sviluppo, il più alto tasso di inflazione, quasi il record della disoccupazione. Non basta. In assenza di effetti miracolosi e salvifici derivanti dall'euro (il mitico «dividendo europeo»), è in specie evidente che i fattori che hanno finora assicurato il «sonno» del debito pubblico si stanno esaurendo. E poi? Ragionando in termini seri e non illusori, assumendo dunque un orizzonte temporale di 5-10 anni, è in specie evidente che i conti pubblici italiani non sono stati risanati. Nei seguenti termini:
a) è vero che le tasse continuano a crescere: più 10% nel 1999 con restituzioni parziali nel 2000, pari a poco più dell'incremento di gettito derivante dal gioco del Lotto; ma è anche vero che, nonostante il furor fiscale che caratterizza patologicamente e per certi versi psicopaticamente l'azione di governo, è evidente che l'incremento possibile delle entrate fiscali non è illimitato. Si noti, tra l'altro, che l'incremento del 1999 molto dipende dall'inflazione e dall'aumento di benzina, bollette, eccetera e niente o poco dalla presunta lotta all'evasione fiscale. Salvi solo gli effetti positivi dei provvedimenti (per esempio, accertamento con adesione, studi di settore, eccetera) che sono stati pensati nel centrodestra, varati dal governo Berlusconi, e a suo tempo contrastati proprio dalla sinistra. In ogni caso, un ulteriore incremento delle tasse, se anche fosse possibile, agirebbe positivamente sul numeratore (debito), ma negativamente sul denominatore (Pil), così producendo effetti perversi ulteriori;
b) i tassi di interesse sono già scesi al minimo storico e stanno progressivamente salendo. Nel 1998 è stata persa l'occasione di capitalizzare i bassi tassi con una operazione di «rischedulamento» del debito. Il beneficio da tassi si sta così progressivamente esaurendo;
c) le privatizzazioni, a prescindere da come sono state operate (quasi sempre come puri trasferimenti di proprietà e non come modifiche di operatività, nel senso dell'avvio del mercato e della fine dei monopoli), hanno finora rallentato la velocità di crescita del debito pubblico, ma non producono entrate infinite. Sono infatti, per così dire, a consumo. C'è ancora da privatizzare, ma per non più di quattro o cinque anni.
In sintesi, il «risanamento» dei conti pubblici italiani è «avvenuto» per l'azione di fattori tendenzialmente casuali e prevalentemente esteri e/o esterni, soprattutto congiunturali e terminali. Poteva e doveva essere diversamente, riformando lo Stato e rilanciando la produzione. Non per caso, ma pour cause, un anno in cui il rapporto debito/Pil è sceso èi11995, anno in cui si sono manifestati gli effetti della politica di sviluppo lanciata dal governo Berlusconi. Nonostante gli sforzi e le speranze, le illusioni e la propaganda, non c'è stato dunque e non c'è un vero risanamento. Non esiste, se non nella cultura bizantina, il «quasi» risanamento. Il risanamento, o è stabile o non c'è. La sconfitta elettorale dell'attuale governo sarà dunque un'opportunità buona in partita doppia. Buona per l'attuale governo, per sfuggire all'azione di responsabilità; buona per il Paese, per dimostrare quello che sa fare senza pifferai ingannatori.