Tremonti: meglio evitare la legge sulle 35 ore
«La proposta di D’Alema? Una fatica di Sisifo. Oggi è indispensabile de-regolamentare il lavoro».
Giulio Tremonti, ministro delle Finanze nel governo Berlusconi, va subito al nocciolo della questione: «Val pena fare uno sforzo così per tagliare 600mila lire l’anno di costo del lavoro, quanto nel frattempo la stessa maggioranza sta per approvare una legge che va nella direzione opposta? Per essere più chiari: anziché fare questa fatica, perché non si blocca la legge sulle 35 ore?».
La riduzione d’orario avrebbe effetti negativi superiori al taglio dei contributi? «Nettamente superiori. Un effetto devastante, sia direttamente sul costo del lavoro, sia soprattutto come messaggio: l’Italia si confermerebbe ancora più come Paese del mercato del lavoro estremamente rigido e regolamentato. Addirittura nell’orario di lavoro, una misura che farà scappare a gambe levate gli imprenditori, altro che taglio del 2,5% dei contributi!»
Meglio evitare nuove leggi sul lavoro, insomma? «Esatto. Per quanto riguarda l’occupazione, in questo momento darebbe maggiori benefici una de-regolamentazione rispetto a un taglio fiscale. L’Europa in generale, e l’Italia in particolare, infatti, soffrono di una forte asimmetria. Da un lato c’è il denaro che costa poco ed è poco regolamentato. Dall’altro c’è il lavoro che, al contrario, ha un alto costo ed è fortemente regolamentato. Il “fattore uomo”, insomma, è rigido, costoso e tassato, mentre il “fattore capitale” è flessibile, libero e tutto sommato poco tassato. Un’area così strutturata è destinata fatalmente a perdere posti di lavoro, perché il basso costo del denaro finanzia la riconversione dell’apparato produttivo con l’introduzione massiccia di robot o con la delocalizzazione degli impianti verso Paesi con un più basso costo del lavoro. Ecco perché la legge sull’orario rischia di aggravare la situazione».
Oltre ad evitare la norma sulle 35 ore, cos’altro occorrerebbe fare? «Cancellare il «contratto collettivo nazionale di lavoro» che è figlio di un’ideologia crepuscolare e fallimentare del ‘900. E che – soprattutto – oggi non è più corrispondente alla struttura economica del Paese. Il modello su cui si basa, infatti, è quello della grande industria nazionale, mentre il tessuto produttivo italiano è costituito in particolare da piccole e medie imprese sparse nel territorio. Perciò quanto più i contratti saranno “individuali e federali” tanto più potranno essere aderenti alla realtà produttiva e quindi favorire lo sviluppo e l’occupazione. Mi sembra invece che si vada nella direzione contraria, anche per quel che riguarda i cosidetti nuovi lavori. Si tenta comunque di ricondurli al “modello” del lavoro dipendente come se fosse l’unico possibile e “giusto”. C’è un limite culturale che ricorda quello del pescatore di Pinocchio. Quando lo porta a riva gli chiede: “E tu che pesce sei?”. “Non sono un pesce, sono un burattino”, risponde Pinocchio. “Ah, un pesce-burattino”, conclude il pescatore per il quale non esiste altro che il pesce».
Dopo le favole, torniamo alla proposta di D’Alema. Una parte del sindacato critica perché sarebbe generalizzata per tutt’Italia e non mirata al mezzogiorno. Lei cosa ne pensa? «Penso che è l’ennesima contraddizione di questa maggioranza. Quando approvammo la “legge Tremonti”, che prevedeva sgravi fiscali per chi investiva e assumeva personale, venimmo accusati di non aver differenziato l’intervento per il Sud. E adesso che fa D’Alema? Una proposta generalizzata per l’intero Paese, complimenti!».
Le autorità comunitarie hanno lanciato un allarme per i conti pubblici italiani (e non solo). C’è da preoccuparsi? «Qualche preoccupazione è tutt’altro che ingiustificata. Innanzitutto perché l’economia non tira quanto previsto. Se la crescita si avvicinasse al 3%, infatti, sarebbere colmate anche le lacune del bilancio pubblico. Se, come invece appare più probabile, la crescita si fermarà intorno al 2%, allora emergeranno alcune criticità dovute agli effetti della finanza “creativa” di questo governo. Niente di drammatico, ma potrebbe essere necessaria una Finanziaria più corposa di quella preventivata. Anche perché andrebbe verificata la reale consistenza delle entrate fiscali che, quest’anno, incorporano pure i contributi sanitari inglobati nell’Irap».