Giulio Tremonti



Rassegna Stampa

- Il Giornale di Sicilia

Tremonti: più soldi per il Sud

Il ministro dell'Economia assicura che il Mezzogiorno non ha nulla da temere dalla devolution: «La ripartizione delle risorse finanziarie non cambia»

Nei giorni caldi della devolution, della Finanziaria, della riforma elettorale abbiamo parlato col ministro dell'Economia Giulio Tremonti. È uscito in questi giorni un suo saggio di grande interesse ( Rischi fatali, Mondadori). Lo ha scritto nei mesi di «quarantena», dopo aver lasciato il governo in polemica col governatore della Banca d'Italia, Fazio, prima di rientrare al ministero. Ora appare sereno. Non gli facciamo domande sulla Finanziaria, ma gli chiediamo un'opinione sulla riforma costituzionale approvata dalla Camera.
«Nel 2001 - dice Tremonti - sono state approvate due leggi, fortemente contradditorie, che hanno inciso profondamente sul sistema dei governi regionali, comunali e provinciali: la Bassanini che decentrava lo Stato centrale e la modifica costituzionale del titolo quinto, che introduceva un federalismo molto complicato. Si tratta oggettivamente di due controriforme che hanno complicato enormemente il sistema. Del resto, basta vedere il gran numero di ricorsi alla Corte costituzionale negli ultimi due anni per rendersi conto che il sistema è andato in tilt per gli elementi contradditori e caotici. Tra l'altro, è stata trasferita ai governi locali e regionali una quantità enorme di spesa discrezionale, senza la possibilità di finanziarla con proprie tasse. Il sistema creato è il peggiore che si potesse mettere in piedi. Le riforme federaliste di oggi lo riportano ad una linearità semplice».
Le maggiori preoccupazioni sono state espresse dalle regioni del Sud. Si teme, cioè, che con la devolution, soprattutto su materie come la sanità e l'assistenza sociale, venga gradualmente a cadere il tradizionale principio del federalismo solidale, con la conseguenza che le regioni più deboli vengano abbandonate a sé stesse. C'è questo pericolo?
«Non è così, perché la ripartizione delle risorse finanziarie non cambia: rimane quella fissata dal titolo quinto della Costituzione, approvato nella precedente legislatura. E quindi non lo abbiamo deciso noi. Credo che in futuro dobbiamo affrontare seriamente la politica di spesa pubblica delle regioni, introducendo elementi di federalismo fiscale, di solidarietà. Si tratta però di criteri, regole, che vanno discussi e che non sono previsti dall'attuale legge sulla devolution».
Il Sud quindi non dovrebbe subire alcun danno da questa legge?
«Assolutamente no. Le riforme di oggi non toccano i soldi. La quantità di risorse finanziane destinate al Mezzogiorno la scorsa legislatura e in quella attuale è in costante crescita. Dobbiamo però ricordare che, se si versa dell'acqua su un terreno non coltivato, c'è il rischio che non cresca niente. In questo senso sono convinto che far nascere una Banca del Sud sia utile, anche perché il Mezzogiorno è l'unica grande regione d'Europa che non ha una banca propria».
Ministro Tremanti parliamo di Cina, di Europa, di mercatismo: sono temi centrali del suo saggio, «Rischi fatali». Il crollo del muro di Berlino, nel 1989, ha segnato la fine del comunismo, ma anche del liberalismo. Sostituiti entrambi, ha scritto lei, dal «mercatismo, l'ultima follia del '900».
«Effettivamente il mercatismo rappresenta la sintesi del comunismo e del vecchio liberalismo. Il comunismo era l'idea che il mondo funzionasse in base a leggi deterministiche che modificavano l'assetto della società. Il vecchio liberalismo era come un orologio meccanico, un congegno fatto da pesi, contrappesi, spinte, equilibri. Il mercatismo, che è la loro sintesi, è l'immissione del mercato in un campo di forza, fa convergere offerta e domanda, produzione e consumo. Postula e fabbrica prima un nuovo tipo di pensiero, il "pensiero unico", e poi un nuovo tipo ideale di uomo-consumatore: "l'uomo a taglia unica", fondendo insieme consumismo e comunismo».
E il Wto (World Trade Organization) ha codificato il nuovo assetto del mondo aperto al mercato?
«A partire dal 1994. Nella storia il tempo è strategico. Il tempo del Wto rischia di essere un tempo suicida, soprattutto per l'Europa. Per fare un esempio, gli Usa hanno aderito al Wto, ma con una serie di norme di applicazione, riservandosi una uscita di sicurezza nell'ipotesi di gravi pregiudizi alle loro industrie. L'Europa ha invece aderito e basta».
Lei definisce Wto «un tempio del mercatismo» e fa capire che Il mercato unico mondiale è un grave errore a giudicare anche dall'offensiva dell'export cinese che sta provocando gravissimi danni all'industria occidentale ed europea, in modo particolare.
«Non è un grave errore. È un grande errore per come è stato realizzato il mercato unico, cioè in tempi troppo rapidi. Se fosse stata applicata la vecchia logica liberale, quella che aveva aperto l'Occidente al Giappone, con tempi e metodi più lunghi, con un gradualismo che è durato per alcuni decenni, probabilmente sarebbe stato meglio».
Si doveva procedere con una maggiore gradualità anche nei confronti dell'export cinese?
«Senza dubbio. Sono stato forse il primo politico occidentale a intuire (e denunciare) il pericolo cinese, ponendo il problema nelle sedi internazionali, sin dal 2001. Dicevo: se l'economia di un Paese piccolo-medio cresce del 9% costituisce un fantastico fatto economico, ma se a crescere del 9% è un Paese continente come la Cina popolare (un miliardo e 300 milioni di abitanti ufficiali, ma, se calcoliamo anche i figli clandestini non registrati per effetto della rigida politica dei figlio unico, si supera il miliardo e mezzo) significa che sta cambiando la velocità del mondo. E dobbiamo aspettarci cose positive, ma anche negative per l'Occidente. Ecco perché l'apertura alla Cina è stata troppo veloce, radicale».
Vogliamo riassumere gli aspetti più «pericolosi» della crescente concorrenza dell'Asia e, in particolare, di Pechino?
«Il pil cinese è in crescita da anni ed ha già superato quello di Italia, Inghilterra e Francia. Sta superando quello della Germania. E fra 15 anni arriverà ai livelli di quello del Giappone e degli Stati Uniti. Fra meno di mezzo secolo la Cina avrà in assoluto il primo prodotto interno lordo del mondo».
Perché preoccuparsi di fenomeni economici che avverranno fra alcuni decenni?
«Perché le conseguenze negative per l'Occidente le stiamo vivendo già oggi. Il dumping sociale e ambientale della Cina sta determinando problemi drammatici all'Europa e al nostro Paese, in termini di forte concorrenza dei suoi prodotti, con ridimensionamento di settori industriali, chiusure di aziende e perdite di posti di lavoro. Tra il 1990 e il 2003 la quota della Cina nell’export mondiale è salita dall'1,9 al 6,5% ,con un sorpasso del Giappone. Oggi la Cina vanta i due terzi della produzione mondiale di macchine fotocopiatrici, forni a microonde, lettori Dvd, calzature, oltre la metà di quella di videocamere digitali e circa i 2/5 di quella di computer. Senza parlare del ruolo sempre più aggressivo nella competizione mondiale delle multinazionali cinesi. In altre parole, la concorrenza asimmetrica della Cina, grazie al basso costo del lavoro (il 5% rispetto ai nostro), al dumping sociale e ambientale, ai finanziamenti quasi a fondo perduto che le banche erogano ai settori produttivi, ai sussidi all' export, alla contraffazione di prodotti e marchi, nonché alla sottovalutazione artificiosa dello yuan nei riguardi dell'euro, sta generando distorsioni formidabili nel commercio internazionale».
L'Europa dunque non potrà reggere a lungo la concorrenza cinese. Che cosa si può fare per difenderci da questo aggressivo attacco? È proprio improponibile l'adozione di strumenti come le quote e i dazi?
«Il punto è proprio questo. La globalizzazione è entrata in Europa trovandola impreparata. La colpa non è dunque solo della concorrenza cinese, ma anche dell'Europa che non sa difendersi. Per citare un solo esempio: siamo l'unica area del mondo che produce una quantità infinita di regole applicandole sui prodotti europei, mentre importiamo dal resto del mondo senza alcun tipo di controlli. Dobbiamo quindi pretendere le stesse regole, gli stessi standard di sicurezza. Se questo significa essere protezionisti, bene, allora lo dobbiamo diventare. Non è vero poi che non si possano applicare regole rigide, come le quote di importazioni di prodotti o i dazi. Gli Usa lo fanno, perché non dovremmo farlo anche noi europei?».
Nel suo saggio ha indicato alcune linee di intervento per fare uscire l'Europa dall'immobilismo, per sconfiggere il «fantasma della povertà», per ricordare il titolo di un suo vecchio libro?
«Dobbiamo ritrovare in Europa la capacità di governare il nostro Continente nel nuovo tempo. Ma serve urgentemente un nuovo programma, concreto e compatibile con i mezzi politici che abbiamo, quanto con i problemi che avanzano».
Su quali punti prioritari?
«Il primo punto («primum vivere»): l'Europa deve fare come gli Usa, che si preoccupano soprattutto della tutela dei loro interessi economici. E poi: deve smettere di applicare regole solo sui prodotti delle imprese europee, senza chiedere standard equivalenti su quelli importati da fuori; deve pretendere l'applicazione universale delle "clausole sociali” e delle "clausole ambientali" a tutela del lavoro e dell'ambiente, quindi pretendere l'allineamento tra circolazione delle merci e tutela dei diritti umani; deve introdurre un'Iva perequativa sulle importazioni dai Paesi che violano queste regole».
Basterà tutto questo?
«Probabilmente no. Forse sarà necessario rinunciare (anche temporaneamente) a una serie di regole (sociali, economiche) che incidono sul costo dei prodotti europei. Forse l'Europa deve rinunciare al disegno di una società perfetta e di un mercato perfetto. Il benessere non si crea per legge. Piuttosto, per legge, lo si può distruggere. Per competere serve una nuova e malthusiana politica legislativa, riducendo all'essenziale il corpus giuridico. L'Europa dovrà adottare il modello irlandese (tassazione zero per i nuovi investimenti esteri in settori e aree strategiche per lo sviluppo). Noi, con il nostro Sud, siamo particolarmente interessati a questo punto. Sarà necessario, poi, un piano europeo di investimenti pubblici e privati, che potrà essere finanziato da emissioni di Eurobond. Anche il presidente Ciampi sembra molto interessato a questo progetto. Non dobbiamo, infine, sottovalutare che, per attuare una politica industriale europea, bisognerà fermare l'uso indiscriminato degli strumenti di Bruxelles anti-aiuti di Stato e anti-trust. Infatti questi interventi vanno fatti solo contro i sussidi puri e contro i cartelli veri, non contro le iniziative che fanno crescere le industrie e il mercato europeo».