Giulio Tremonti



Rassegna Stampa

- La Padania

Tremonti: «Mai senza il Carroccio»

«La Grande Coalizione? Impossibile». E sulla Bossi-Fini: «È un modello anche in Europa»

Ministro Tremonti, ci voleva anche lei a parlare di Grande Coalizione?
«Nell'intervista a Repubblica l'ho detto chiaramente: è un'ipotesi impossibile».
Allora perché ne ha parlato?
«Ne ho parlato in via del tutto accademica. Allo stato delle cose, la Grande Coalizione è impossibile da trasferire nel dibattito italiano perché questo è un Paese ancora diviso tra guelfi e ghibellini, è un Paese dove la sinistra non è pronta a parlare dei temi concreti».
Nessuna puzza di Grande Centro?
«Per evitare incomprensioni, glielo dico con grande chiarezza: ribadito che si trattava di mero esempio, se anche ci fosse nella realtà una sola percentuale di fattibilità, le dico che la Grande Coalizione non potrebbe mai essere un'operazione di Palazzo ma dovrebbe fare i conti con le forze vive del Paese, con i partiti veri, quelli che hanno un seguito popolare: la Lega appunto».
Insomma, in una fantasiosa Grande Coalizione, tra Bassi e Rutelli o D'Alema non avrebbe dubbi.
«Nessuno: Bossi, senza dubbio. D'Alema forse sarà bravo a fare lo yacht-man ma come statista non ci siamo proprio. Idem Rutelli».
D'Alema ha detto: al governo con Tremonti, mai.
«Neanch'io con lui. E non c'era bisogno della sua dichiarazione perché io lo precisassi. La Grande Coalizione non si fa off-shore, non la fa il Palazzo, la fa il popolo. Non può essere la scusa di una conventio ad excludendum . La Lega sarebbe imprescindibile».
Vabbè, ma siccome è solo un esercizio di accademica politica, forse è meglio non parlarne più...
«Sono d'accordo. Parliamo delle questioni serie, invece».
Partirei da quello che sta accadendo in Francia: la protesta si sta allargando a macchia d'olio. Prodi dice che anche le nostre periferie sono polveriere.
«La ricetta new ape di Prodi abbiamo visto dove porta: alla rottura sociale. Quanto sta accadendo in Francia è il fallimento dell'integrazione forzata, dell'immigrazione salvifica. Questo è il modello che stava alla base delle politiche della sinistra e della Turco-Napolitano. Bossi, al contrario, ci vide giusto».
Con la Bossi-Fini?
«Che è una legge ottima, tanto che viene presa a modello da molti governi europei. I fatti francesi ci mettono con le spalle al muro: più Bossi-Fini? O più immigrazione incontrollata?»
Lei cosa sceglie?
«Più Bossi-Fini, ovvio. Anche perché smentirei me stesso: nella Bossi-Fini ritrovo quel disegno di iniziativa popolare che Bossi, Berlusconi e il sottoscritto studiammo nella primavera del duemila. Era attuale allora, è attualissima oggi. E’ una normativa calibrata nelle dimensioni e che ben si cala nella società».
Crede alla svolta “law and order" della sinistra? Cofferati...
«.. La blocco immediatamente: Cofferati ha sempre predicato l'opposto e comunque quello che sta facendo è troppo tardi, è troppo poco e soprattutto è troppo falso. CI vedo un carattere strumentale».
Cambiamo tema: ci può essere convergenza con la sinistra sul federalismo? Gliela domando perché anche lei, come già fecero Bossi, prima, e Calderoli, poi, ha riconosciuto che nella riforma del titolo V c'è un embrione di federalismo.
«È vero, ma il ragionamento è monco. La ripartizione dei poteri dal centro alla periferia può essere o decentramento o, appunto, federalismo: si tratta di due cose diverse. La sinistra, invece, le ha sovrapposte perché ha fatto contestualmente la Bassanini e la riforma del titolo V, creando così una asimmetria tra centro che tassa e periferia che spende».
Ecco perché dopo la devoluzione occorre ragionare sul federalismo fiscale?
«Senza dubbio: è nell'interesse generale studiare le forme del federalismo fiscale. Gli altri non se ne possono far carico, tocca a noi e spero, penso, che nel programma elettorale sia inserito».
Perché dice che il federalismo fiscale è nell'interesse generale?
«Per evitare il collasso finanziario creato dallo spostamento dei poteri tra Stato e Regioni senza che ci fosse un'analoga modifica del meccanismo finanziario. Insomma, va riequilibrato l'asse dei poteri, responsabilizzando i governi locali».
Avete scelto la Sicilia come primo esempio di federalismo fiscale.
«Quello che il governo ha fatto per la Sicilia è indicativo. Quella regione ha chiesto più potere fiscale e più competenze, più potere fiscale e più potere regionale».
Le regioni del Nord chiedono altrettanto: quanto avete fatto per la Sicilia è replicabile?
«Ci vuole del tempo, come in ogni riforma complessa, ma è innegabile che, ferma la solidarietà, si vuole arrivare a un federalismo compiuto».
L'ha promesso a Bossi?
«E’ un cammino che condivido con la Lega. Avevamo promesso la devoluzione e sta arrivando».
La Lega e Tremonti si sono distinti in questi anni nella difesa dei piccoli imprenditori e dei distretti dal pericolo cinese e dagli effetti distarti dell'euro. Cosa pensate di fare di concreto e di nuovo per rilanciare questi poli produttivi?
«I distretti industriali sono nella realtà sociale: o sono una piattaforma produttiva o sono organizzati in filiere. Non sono però ancora presenti nella realtà legale, nel senso che la legge li ignora. Noi vogliamo che la legge converga con la realtà».
Nella pratica cosa cambierebbe?
«Vogliamo che i produttori che fanno parte del distretto stringano un patto, un accordo, per cui ci sia una base imponibile unica attribuibile al distretto, comunque compensazioni automatiche tra crediti e debiti Iva: semplificazione amministrativa concentrando la contabilità. Un rapporto con le banche non tenuto dai singoli ma tutti insieme: confidi, Basilea 2, obbligazioni di distretto. Con questa nuova dimensione dei distretti vorremmo che si realizzasse il motto: l’unione fa la forza».