Giulio Tremonti



Rassegna Stampa

- Il Giornale

«La Commissione Prodi è stata un fallimento»

Tremonti: ecco perché l'Ue non è più nei cuori e comincia a essere sentita come un pericolo per il portafoglio

Sarà perché si è trasferito in via dell'Umiltà, ma le stanze di Giulio Tremonti appaiono davvero monastiche. Pareti bianche, un solo quadro di Forza Italia appeso alla parete. I tempi del ministero dell'Economia sembrano lontanissimi, il dibattito sulla collegialità e il colbertismo un capitolo chiuso.
Siamo in un'altra era che - come in un eterno ritorno - è più vicina al Tremonti politico a tutto tondo, generalista e non specialista, più stratega che tattico. Quando faceva il ministro dell' Economia e stava in via XX Settembre cercava di praticare ricette per un fisco più giusto e meno oppressivo, ora fa il vicepresidente del partito di maggioranza e gioca a tutto campo il Risiko della politica, con delle puntate nel dibattito culturale. Un suo recente articolo sul «patriottismo economico» è finito sulla scrivania dei piani alti di Bankitalia e, per un calembour del destino, almeno su questo punto anche le tesi di Via Nazionale sono tremontiane. Non è la prima volta che Tremonti ha l'intuizione giusta e fa da apripista. Il piano di crescita europeo, la legge sull'immigrazione Bossi-Fini, la devolution, la legge obiettivo per le grandi opere, sono frutto delle sue elaborazioni. Anche se in politica «non c'è il copyright», per Tremonti «le invenzioni sono degli inventori».
Oggi Tremonti sarà a Lugano, ancora una volta al fianco di Umberto Bossi, nel giorno del suo ritorno alla politica in pubblico. Se qualcuno nei mesi scorsi aveva puntato sul tramonto della strana coppia dal cuore federalista, da oggi avrà altro materiale su cui applicarsi per studiare un fenomeno della politica italiana del quale si conosce l'inizio ma non la fine. Partiamo con le domande proprio da lui, da Bossi, dal suo passato e presente.
Onorevole Tremonti, è vero che Bossi le chiese di non dimettersi?
«Si, ma avevo già scritto e spedito la lettera di dimissioni».
E’ vero che Bossi le chiese di fare il ministro al suo posto?
«Sì, ma se lo avessi fatto, in quel momento, con un mio reingresso nel governo dopo poche ore, non avrei favorito ma ostacolato la discussione sulle riforme».
Quella riforma costituzionale che ora è in discussione nuovamente in Senato. Ma è ancora tempo di federalismo? È ancora la devolution la risposta giusta ai problemi dell'Unione europea?
«La storia è tesi, antitesi e sintesi: la tesi è la devolution, l'antitesi sono le resistenze affrontate in prima lettura al Senato e poi in seconda lettura alla Camera. E da qui si arriva al vertice di Lorenzago e alla sintesi fra tre punti: presidenzialismo, proporzionale federalismo, Federalismo, che è non solo la passione e la finalità ideale della Lega, ma anche irreversibilmente il futuro della politica o la politica futura in Europa. Il testo di legge in discussione è un buon testo. Va notato che appena votata la riforma del Titolo V (con appena cinque voti di scarto), fu la stessa sinistra a dire che serviva una seconda riforma. E lo fece indicando obiettivi che sono quelli centrati dalle nostre riforme».
Lei ha accennato al federalismo e all'Europa. Il Vecchio Continente, al di là della retorica europeista, sembra attraversare un momento di grande difficoltà. Ci sono spinte centrifughe (la Germania che chiede per sé il seggio permanente al consiglio di sicurezza Onu ne è un esempio) e una stagnazione economica quasi cronica. L'Europa nacque sotto ben altri auspici.
«La storia politica dell'Europa moderna dura da circa mezzo secolo  e può essere divisa convenzionalmente in tre fasi: eroica, economica e politica. La prima fase, quella eroica, fu costituita da grandi principi e da grandi uomini; la seconda lunghissima fase è quella economica che va dal mercato unico alla moneta unica, la terza fase è quella politica ed è iniziata ora con la Convenzione. La mia idea è che siamo davanti a un processo in atto che durerà ancora decenni. Si tratta di un processo che ha conosciuto fasi ascendenti e discendenti, di fermo improvviso e di spinte accelerate».
Lei resta dunque euroscettico?
«Il criterio che ho sempre seguito è stato: il massimo della discussione critica e democratica prima, il massimo della lealtà istituzionale dopo. Basta guardare come ho gestito il semestre di presidenza Ecofin, la mia proposta di piano di crescita europeo per capirlo. Credo di aver fatto il mio dovere istituzionale con lealtà ed efficienza e massimo della discussione prima».
Leale ma critico. In Italia sembra esser proibito criticare l'Europa. Eppure i libri sui poteri invisibili, sui tecnocrati e il deficit di democrazia non mancano.
«Quello che manca appunto in Europa è il tasso di discussione democratica. La crisi di consenso sull'Europa deriva dalla dottrina del dispotismo illuminato, dalla tecnocrazia, da un fondamentale deficit di democrazia. Più fondamentalmente, il vettore della tecnocrazia economica è stato più avanzato del vettore della politica democratica. Prendiamo l'europeissima Spagna: per il referendum di ratifica della Costituzione europea è andato a votare solo il 40 per cento dei cittadini. E di questo 40 per cento ben il 40 per cento ha votato contro la Costituzione. Ma la cosa che è davvero impressionante è quel 60 per cento di spagnoli che non è andato a votare per l'Europa».
Si è rotto l'incantesimo, fine dell'euroentusiasmo?
«La magia dell'idea politica iniziale dell'Europa era quella di essere prima nei cuori e poi nel portafoglio degli europei. Adesso l'Europa non è più nel cuore e comincia a essere sentita come un pericolo per il portafoglio».
L'euro non è certo amato dalle famiglie italiane.
«Questa è la storia dell'euro e bastava poco, qualche anno in più di preparazione e, per esempio, la banconota da un euro di carta, per fare accettare di più l'euro dagli europei».
Ma l'idea della banconota da un euro è stata bocciata da Romano Prodi.
«Il dollaro è un prodotto di un certo successo. Ci sarà una ragione perché c'è la banconota da un dollaro. E non bisogna aver studiato tanto per capirlo».
L'euro fu salutato come una nuova era di stabilità e ricchezza. Si pensava che la moneta avrebbe unito e fatto da stimolo per l'economia. Si parlava di Europa come futuro competitor degli Stati Uniti.
«Negli ultimi tre anni si è manifestato il principio di una crisi europea. Da un lato un fortissimo crescendo di integrazione e dall'altro lato lo stallo economico. Abbiamo visto due cose essenziali: una integrazione verticale assoluta dell'Europa economica e la sua immetrica stagnazione. Io l'avevo notato da subito, ma solo ora si sta diffondendo la netta sensazione che la commissione Prodi si identifichi con un fallimento culturale e politico. E, il fallimento dell'idea dell'integrazione senza competizione. Da una parte la competizione globale si intensificava vertiginosamente, dall'altra si approfondiva, radicalizzava e irrigidiva l'impianto delle regole europee. Una dissociazione schizofrenica tra mondo reale e mondo artificiale, tra realtà del mercato globale e utopia del mercato perfetto europeo».
Lei ha parlato di eccesso di regole. Ma quindici anni fa l'Europa era già un mercato, con tanto di regole antitrust, di divieti di aiuti di Stato e così via.
«Appunto, è vero, anche quindici anni fa eravamo un mercato. Ma quel sistema di regole era meno soffocante. Più cresceva il bisogno di flessibilità imposto dal resto del mondo e all'opposto - negli ultimi anni con la commissione Prodi - più la burocrazia e la "cultura" tecnocratica irrigidivano il mercato spiazzandolo progressivamente nella competizione globale. E’ stata fatta molta polemica sul contrasto con la normativa europea della proroga per due mesi della Tremonti bis nelle aree del centro nord colpite da calamità naturali. Non si è prestata sufficiente attenzione al fatto che la Commissione Europea ha dichiarato la illegittimità di provvedimenti di portata enormemente maggiore».
Mi faccia degli esempi.
«La legge Amato, la legge Ciampi, da ultimo quella sui contratti di formazione e lavoro e così via. Provvedimenti che dieci anni sarebbero stati considerati legittimi e che allora e ancora sai ebbero fondamentali per la competizione».
A proposito di rigidità: il ministro della Funzione Pubblica Mario Baccini ha annunciato un provvedimento per snellire la denuncia di inizio attività. Non era per caso una sua idea?
«In politica non esiste il copyright, non esiste il diritto d'autore. La bozza di gennaio dell'anno scorso era divisa in due parti, una riguardava la riforma fiscale e l'altra la competitività. E in quest’ultima erano previsti gli interventi sulla libertà economica, il megafono rotativo in Finanziaria per l’innovazione, il contributo etico per la ricerca e il no profit, la detassazione per i trasferimenti industria-università, premi di concentrazione per le imprese che si univano crescendo di dimensione e altro ancora. Tutti provvedimenti per applicare l’agenda di Lisbona».
Lei parlando di patriottismo economico ha identificato come bene da proteggere per primo lo Stato sociale. Non è una tesi di sinistra? Non è in contrasto con il suo essere un politico liberale?
«Mi permetta di rispondere con una frase di Kennedy: "Ho il piacere di informarla che non sono liberale, ma realista"».
Ma il professor Giavazzi la accusa di volere la fine dell'economia materiale.
«Giavazzi mi ha attribuito queste parole: "Dobbiamo abbandonare l'economia materiale”'. Non ho mai sostenuto questo. Giavazzi si è limitato a fabbricare un argomento polemico. Che l'economia vada verso l'immateriale è evidente, è un dato che può piacere o non piacere, ma anche questo, per tornare a Kennedy, è pura realtà».
Bertinotti nella sua relazione ai congresso di Venezia demonizza l'economia immateriale e sostiene che sia la causa della crisi nel mercato del lavoro.
«La crisi del lavoro in Europa è solo parzialmente causata dall'economia immateriale. Questa crisi è causata soprattutto dalla migrazione industriale verso Oriente, può sembrare una analisi marxista, ma anche questa è dura e pura realtà».