L'Accusa di Tremonti «Con le mani legate dall’euroburocrazia»
Il vicepresidente di Forza Italia: il mercato mondiale è andato verso una competizione sfrenata e l'Europa ha aumentato le regole
«Mi piacerebbe far capire, quando si parla di competitività perduta a confronto con Asia e America, che molte difficoltà ce le fabbrichiamo noi europei con le nostre stesse mani», Giulio Tremonti, ex ministro dell'Economia, oggi vicepresidente di Forza Italia, parla dal telefonino dell'auto che lo sta portando a Cernobbio per il Forum di Confcommercio. «E vorrei spiegare che il problema di proteggere le nostre produzioni non è nato in queste ultime settimane. Per quanto mi riguarda, l'ho sollevato tre-quattro anni fa nelle massime sedi internazionali».
E' stato il primo?
«Credo di si. Comunque basta vedere i comunicati finali dei G7 e come cambiano tra il 2001 e il 2002. Vedrà che a un certo punto la formula "free trade" viene sostituita da "rules based trade" (commercio basato sulle regole). Probabilmente la dizione migliore sarebbe dovuta essere "fair trade", commercio corretto. Però venne esclusa perché, nella prassi amministrativa americana, "fair trade" vuole dire "duties and quotas"».
In pratica, dazi e quote.
«Esatto. Sembrò troppo forte. A quel punto... tesi, antitesi e sintesi».
Scusi?
«Si raggiunse il compromesso, "politicamente corretto", di appellarsi per il futuro a un commercio basato sulle regole, contrapposto al liberismo sfrenato».
Un passettino verso il protezionismo.
«Non è così. Lasci la polemica sul protezionismo al teatrino della politica. Quello che chiediamo è un'altra cosa. Protezionismo vuoi dire pretendere di correre da soli. Oppure dire: gareggiamo insieme, ma per me vale un metro da 90 centimetri. Io sostengo invece che, per una competizione corretta, il metro dev'essere di 100 centimetri per tutti. E che noi non riusciremo mai a vincere la gara fino a quando ce lo terremo da 110».
Fuor di esempio?
«L'Europa continua a non accorgersi di cosa è successo da 5-6 anni a questa parte. Cioè da quando il sistema del Wto ha cominciato a manifestare i suoi effetti sostanziali».
Sta parlando dei nuovi parametri del commercio mondiale?
«Sì. Se per cinquant'anni il Vecchio Continente è stato un'isola, adesso non è così. Non siamo più il “Mercato Unico". Dopo mezzo secolo dobbiamo passare dall'integrazione europea alla competizione globale. E' quello che cercai di segnalare nei vertici internazionali: mai nella storia si è verificato un fenomeno così improvviso ed esteso, come Europa noi non possiamo fare una gara sperequata. E per di più da noi stessi».
Come mai fu proprio lei a sollevare il problema?
«Perché vengo da un paese che è stato tra i primi ad esserne investito, avendo noi un alto tasso di manodopera e un basso livello di tecnologia. Ma se vogliamo essere seri, non possiamo dire che l'Italia va a fondo mentre gli altri prosperano. Sono in recessione l'Olanda e la Svizzera, la Germania ha più disoccupati che nel primo dopoguerra. Non esiste, in Europa, un paese felice».
E allora?
«Il problema riguarda tutti. Negli ultimi anni l'economia europea si è piantata. Anche a causa di una asimmetria drammatica».
Di che genere?
«Più il mercato mondiale è andato verso una competizione intensa, più l'Europa ha incrementato la regolamentazione. Creando ideologicamente costi tanto artificiali quanto irrazionali. Competizione globale nel mondo, burocrazia totale in Europa. Con utopica ricerca di un mercato interno perfetto in un pianeta dove il mercato globale è tutto fuor che perfetto».
Tipo?
«In America il volano dell'economia è la spesa militare. Possiamo intenderla come aiuto di Stato?».
Risponda lei, professore.
«Io so solo che l'Europa ha appena vietato, in quanto aiuto di Stato, i “contratti di formazione lavoro". Ancora: nel Vecchio Continente abbiamo ben 26 antitrust; in Cina, se una politica anti-concentrazioni esiste, è puramente simbolica».
E' per questo che lei propone di sbarrare le porte ai prodotti cinesi?
«Non sta assolutamente così. E' una semplificazione inaccettabile. L'intensità della fase storica ci impone di non ridurre tutto alla storia della Cina. Non so se è pagliuzza o trave, so che noi come Europa abbiamo in testa una trave, Cito il vice-presidente della Commissione Ue, che è il tedesco Verheugen. Ha detto: "Ho sul tavolo il dossier sulle confezioni del caffè. Mi rifiuto di perderci tempo. Basta. Non è di questo che si deve occupare l'Europa"».
Condivide?
«Queste cose io le ho sempre sostenute. Una volta ho detto, scherzando in un convegno, che se continuerà a occuparsi di uova e di pollame l'Europa finirà come una gallina bollita in una pentola cinese da un cuoco cinese...».
Fu una battuta.
«Sennonché la reazione di un certo establishment allora era di demonizzazione. Venivo liquidato come euro-scettico. Adesso lo dicono i vertici Ue... Meglio tardi che mai. Cito ancora il vice-presidente della Commissione: "Gli sforzi fatti negli ultimi cinque anni per uscire da questa trappola sono stati finti, burocratici e tecnocratici"».
La Commissione attuale di Barroso punta l'indice contro quella precedente?
«La mia valutazione è molto semplice: nei suoi cinque anni a Bruxelles, Prodi non ha fatto quello che doveva fare, ha fatto quello che non doveva fare».
Dove è mancato?
«Non ha introdotto il brevetto europeo, che doveva tutelare la nostra ricerca; non c'è stata tutela nemmeno contro la contraffazione, che oggi arriva a falsificare non solo i prodotti ma addirittura i marchi. Non tutti sanno cosa vuol dire la stampigliatura CE su tante etichette».
Comunità europea?
«Vuoi dire China Export. Ci siamo lasciati sottrarre perfino il marchio europeo».
Torniamo alla Commissione che fu guidata da Romano Prodi.
«Non ha chiesto parità di condizioni rispetto agli standard amministrativi, sanitari, ambientali. Invece ha ecceduto con le regole su aiuti di Stato e antitrust. E' come voler correre con lo zaino pieno di sassi, per effetto di un eccesso di regole. Senza prendere atto che la scommessa dell'Europa non è più quella dell'integrazione in un mercato astratto, ma della competizione su un terreno dove altri ci stanno spiazzando».
Che cosa servirebbe, secondo lei?
«Riconoscere che lo scenario di riferimento non è più nazionale, ma europeo. E qui la situazione si fa drammatica. Perché da una parte l'Europa avrebbe bisogno di più governo, dall'altra governare con 25 paesi è sempre più difficile. Metà sono di destra e metà di sinistra, alcuni sono governi forti altri deboli, in certi casi hanno una missione in altri non gliene importa nulla dell'Europa...».
Che altro?
«Modificare il meccanismo mentale. Trovando il coraggio di spostare l'attenzione dall'alto verso il basso. Ricorda quando proponevo la banconota da un euro, che discussioni? Ora l'ha appena chiesta il Belgio, che è uno dei paesi più “ortodossi"».
Fa discutere l'idea di introdurre dei dazi...
«Sì, e si condanna il solo fatto di parlarne. Salvo poi ammettere che il problema esiste. Nessuno, e certo non io, ha parlato di dazi unilaterali, semmai di strumenti per la salvaguardia delle regole del WTO».
Secondo lei dobbiamo difenderci dalla Cina?
«No, io affermo che dobbiamo difenderci dall'Europa. O almeno dalla sua parte malata. Ripeto: è inutile cercare la causa dei nostri problemi solo a Pechino».
E dove altro?
«Anche a Bruxelles».
Nella burocrazia comunitaria...
«Troppo poco. Direi nella tecnocultura su cui si è girata la fiction europea degli Anni Novanta. Contro cui i primi che cominciano a ribellarsi sono proprio i cittadini».