«Europa vecchia: se non cambia affonda»
Tremonti: per il politicante Prodi siamo al collasso, ma lui che ha fatto a Bruxelles?
Roma - «Dov'era Prodi in questi anni? Era su Marte? Perché per difendere la ricerca, da presidente della Commissione, non ha fatto il brevetto europeo? C'è gente che ha il senso dello Stato e gente che si accontenta del fiuto di partito. All'Italia servirebbero meno politicanti e più statisti». Giulio Tremonti, vicepresidente di Forza Italia ed ex ministro dell'Economia, risponde così alle critiche sul fronte economico del leader dell'Unione. E propone di ripensare l'Europa per ridare slancio all'economia del Vecchio Continente «pensata e strutturata come 50 anni fa».
Professore, l'Italia e l'Europa però sono ferme davvero. I brutti dati della bilancia commerciale ci riportano al '92...
«Il problema non è nostro, da tre anni si è piantata tutta l'Europa. E non è che l'Europa è a targhe alterne, un giorno c'è e uno non c'è. L'Europa c'è e bisogna farci i conti. E l'Europa - l'eurozona - è un unico mercato, un'unica moneta, un unico sistema di regole e di governo, un'unica realtà economica. Dunque, la soluzione non si trova enucleando dal contesto europeo un singolo Paese. L'analisi deve essere continentale. E mentre il resto del mondo occidentale cresce al 5.1%, l'Europa è ferma all'1.5%. Insomma, c'è un'asimmetria, c'è un differenziale negativo strutturale. L'Europa è sotto il resto del mondo».
Qualche differenza tra i Paesi c'è. La Germania esporta più di noi.
«Ma io so che in Germania ci sono 5 milioni di disoccupati. E se uno va a vedere i contenuti delle esportazioni, scopre che molti Paesi esportano fabbriche. Che poi sono meccanismi "rubalavoro". Un conto è vendere prodotti, un conto è vendere impianti a uno che poi vende anche prodotti che cancellano lavoro alle tue imprese e ai tuoi operai. Il saldo è negativo».
Ma l'Italia sta diventando il fanalino di coda di Eurolandia...
«L'Italia è stata investita per prima dalla concorrenza che veniva da Oriente perché ha un sistema con alta intensità di manodopera e bassa tecnologia. E' stata la prima a risentire della competizione che si è scatenata nel mondo. La prospettiva di un progressivo rallentamento si ha anche nel resto d'Europa. E non vedo ancora, nell'Unione, scelte di politica economica che possano costituire un vero cambiamento di linea. Aggiungo che i singoli Paesi hanno un potere politico di intervento assolutamente marginale, e che è inutile fare polemiche come fa qualcuno. Le cause sono profonde e le colpe non sono attuali. Tutto deriva da scelte antiche, sbagliate. Scelte di conservazione dell'impossibile, come fu il vecchio patto dell'inizio degli anni '90. O come le privatizzazioni fatte come sono state fatte. Bisogna i superare tutto questo».
Superiamo anche gli anni del governo Berlusconi?
«Se lei guarda il programma con cui si è presentata alle elezioni la sinistra nel 2001, c'era scritto: "Il futuro non ci fa paura". Dunque ancora nel giugno del 2001 le prospettive erano fortemente positive. Poi abbiamo avuto le crisi dell'auto, degli aerei, del risparmio, dell'Argentina, dell’11 settembre. In più abbiamo ereditato il terzo debito pubblico del mondo, ma non siamo il terzo Paese del mondo. E le assicuro che è difficile gestire, con un'economia che non va bene, una catena impressionante e concentrata di fattori di crisi. Tuttavia l'economia ha tenuto: abbiamo rispettato i vincoli di bilancio, abbiamo iniziato un ciclo sostanziale di riforme strutturali, dal lavoro alle pensioni. E abbiamo investito tanto sulle infrastrutture. La questione. però, non è andare a vedere le cause di ciò che è successo e sta succedendo. La questione è cosa fare. E la soluzione politica. ripeto, è solo europea».
A Bruxelles stanno provando a riformare il patto di stabilità.
«Se passerà il criterio di valutazione Paese per Paese, considerando le riforme strutturali e assegnando tempi di rientro ragionevolmente lunghi, si renderà il patto più utile, ragionevole e intelligente. Ma non basta riformare il patto di stabilità conte da tempo ha indicato il nostro governo. Bisogna rivedere anche l'agenda di Lisbona, quella sullo sviluppo. Quell'agenda è stata scritta nel 2000, da allora la struttura del mondo è cambiata. E allora si scopre che Lisbona è necessaria, fondamentale. Ma non è più sufficiente perché pensata con la logica del Vecchio Continente».
Cosa propone?
«Di cambiare visione. La politica europea è stata per mezzo secolo una politica di integrazione del Continente, cioè di costruzione del mercato unico europeo, vietando la competizione sleale ad esempio tra Francia e Germania. La filosofia e la tecnica politica dell'Europa sono state finora quelle della integrazione orizzontale, come se il Continente fosse un universo chiuso. Le parole hanno spesso una forza tremenda: si parlava di "mercato unico europeo". Ma do una notizia: parlare di mercato unico europeo è un puro nonsense. Non c'è più mercato unico, l'Europa è solo una parte dell'unico mercato globale. E allora il problema non è più la competizione di un Paese europeo verso l'altro, è la competizione di tutto il Continente verso il resto del mondo».
Se questa è la visione, cosa fare?
«Tanto per cominciare serve una radicale riduzione delle regole. Le regole essenziali sono un investimento, le regole inutili ed eccessive sono costi. Il quantum di regole e dunque di costo che lei trova in un barattolo di pomodoro europeo, non è competitivo con il vacuum di regole e di costi contenuto in un barattolo di pomodoro cinese. Il mercato è fatto da tempi, regole e da condizioni di equilibrio. Ebbene, l'industria, il lavoro, la produzione europei non sono in condizioni di equilibrio. Non sono competitivi. Il paradosso, l'ironia, è che non lo sono per una situazione che ci siamo assegnati noi stessi. E ce la siamo assegnata in un mondo che non c'è più».
Sta dicendo che l'Europa dovrebbe smetterla di farsi male da sola?
«Sostanzialmente sì. In questo principio di secolo, il Vecchio Continente sta nuovamente ballando un suo ballo Excelsior che sul finire della Belle Epoque accompagnava una stagione che si immaginava luminosa e di Sviluppo e di pace perpetui. Invece venne il trauma. Dobbiamo capire che il mondo è cambiato. Noi vietiamo gli aiuti di Stato, ma in Cina non si capisce dove inizia l'aiuto e dove finisce lo Stato e viceversa. Noi regoliamo un mercato finanziario perfetto, ma il sistema finanziario dei nostri competitori è assolutamente opaco. Noi abbiamo in Europa venticinque antitrust più una. In Cina non so se hanno l'antitrust, ma se c'è, è come se non ci fosse».
Viva la deregulation?
«Non è dire: "viva la deregulation". Ma serve una realistica presa d'atto che le regole sono state scritte in un mondo che non c'è più. Ora l'industria europea non è in parità di condizioni con le economie degli altri continenti. Allora, o il mondo si adatta alle regole europee, ed è impossibile. Oppure l'Europa si adatta al resto del mondo. Non dico: blocchiamo il mercato. Dico: definiamo tempi e metodi di progressiva integrazione. Un esempio: gli ultimi dati dell'industria delle calzature italiana sono già tali da giustificare l'adozione delle clausole di garanzia e di salvaguardia del Wto a difesa della nostra industria. E poi ci sono cose che si possono fare e non sono state fatte. Penso al brevetto europeo e alla regolamentazione europea del “made in”. Se Prodi, invece di polemizzare sull’italiano, avesse fatto il brevetto europeo, sarebbe stato meglio».
Ha citato Prodi. L’ex presidente della Commissione non è tenero sul fronte economico.
«Se uno vuole fare polemiche da campagna elettorale, faccia pure. Ma io credo che l’Italia abbia bisogno di visioni di sistema e di meno politici e più statisti. E uno fosse uno statista dovrebbe dire: l’Europa si è piantata, non solo l’Italia, dovrebbe avere una visione di sistema. Quando Prodi dice: “siamo al collasso”, perché non lo diceva quando aveva la responsabilità della politica europea? L’Europa non puoi dire che esiste solo quando ti fa più comodo. L’Europa c’è».
C’è anche l’America. Prodi ha rilanciato un ponte di dialogo con gli Usa, dopo le tensioni della guerra irachena. Cosa ne pensa?
«Per Prodi e gli altri signori della sinistra il punto drammatico è il meccano mentale dell’anti-americanismo. Un meccano che non riescono a nascondere. Quando Fassino dichiara che sulla politica estera avrà bisogno dei voti dell’opposizione, vuol dire che non ha una maggioranza. La divisione tra politica estera e interna è convenzionale, non c’è più niente in un mondo globale che si fermi sulle frontiere».