Europa, resta solo il declino?
La domanda è di quelle tipiche che ci si pone nei momenti drammatici: siamo al declino o all'inizio di un nuovo sviluppo?
La domanda è di quelle tipiche che ci si pone nei momenti drammatici: siamo al declino o all'inizio di un nuovo sviluppo? La stagnazione economica, la scarsa competitività, l'incertezza politica delle sorti dell'Europa preludono a un'epoca di fallimenti per il Continente? Le domande sono tanto più serie perché si fa incalzante la concorrenza di paesi come Cina e India. A questi dubbi hanno cercato di rispondere due economisti, Michele Salvati e Giulio Tremonti, durante un dibattito tenutosi in maggio di cui la rivista trimestrale «Atlantide», diretta da Giorgio Vittadini, pubblica il testo nel numero in uscita. Ne anticipiamo ampi stralci.
Precoce declino, nuovo sviluppo: quale la diagnosi? Quali le terapie? È un allarme reale o una voce allarmistica? Non c'è più nulla da fare?
Salvati: «Credo che la situazione in cui viviamo sia seria. La gravità della situazione ha radici molto lontane; è un dato che dobbiamo ricordare anche per evitare facili strumentalizzazioni. Ogni governo recente ha le sue responsabilità ma direi che l'errore più grande sia stato quello di non aver sottolineato ai cittadini le difficoltà e che questo esige da parte loro una particolare concentrazione di risorse, ed eventualmente sacrifici per un periodo abbastanza lungo. Le cause dell'attuale ristagno risalgono alla fine degli anni '60. Finita la fase di industrializzazione postbellica, il nostro Paese è stato incapace di affrontare i grandi problemi strutturali che c'erano già allora: la grande industria troppo concentrata nel triangolo industriale a scapito dello sviluppo della piccola impresa in altre regioni del Paese; una pubblica amministrazione e una burocrazia che non funzionavano e una situazione disgraziata nel Mezzogiorno per cui una parte molto ampia della popolazione non contribuiva significativamente alla crescita del reddito. Si creò così una situazione di inflazione e di debito che ci rendeva diversi dagli altri Paesi e per due decenni tutta l'attenzione degli economisti e dei politici si concentrava su problemi macro economici dimenticando i problemi reali. Ci furono periodi in cui affrontammo grandi difficoltà: penso al momento della ricostruzione in cui riuscimmo a scatenare energie straordinarie unificando l'intera volontà del Paese. Penso al risanamento fiscale del Paese che avvenne nei primi anni '90. A differenza di oggi, in quei momenti i cittadini avevano chiaro quale fosse il problema e in un certo senso avevano chiara la soluzione. Il ristagno di oggi non ha invece una natura così incisiva e forte tale da suscitare una risposta chiara e chiare energie: tutti i concittadini sanno che c'è un problema ma credono che tutto sommato si cresce e che in fin dei conti gran parte delle persone stanno bene. I politici hanno la difficoltà di riuscire a convincerli che occorre un impegno straordinario, non tanto per intensità ma per la durata temporale. Sono tantissimi i punti su cui si deve intervenire in modo non miracolistico ma secondo una ricetta di maggiore efficienza protratta nel tempo e secondo un disegno di politica economica che deve essere mantenuto sia da un governo di centrodestra sia da un governo di centrosinistra».
Tremonti: «Credo che le cause di questa situazione siano molteplici, combinate con effetti che si sono accumulati e quasi moltiplicati esponenzialmente tra loro. Ne cito tre: l'11 settembre, l'euro e la concorrenza asiatica asimmetrica. Sappiamo bene le ricadute dell'11 settembre sull'economia europea. C'è poi il passaggio dalle vecchie monete nazionali all'euro: l'euro è stata la cosa giusta ma è stata fatta nel tempo sbagliato. E’ straordinario che i grandi contratti siano denominati in euro ma forse l'alternativa meno costosa dal punto di vista sociale, e quindi economico, avrebbe potuto essere la doppia circolazione per i piccoli scambi, l'euro infatti ha spostato quote di ricchezza perché ha distrutto la capacità di calcolo, un valore economico fondamentale. A causa della struttura della nostra produzione e distribuzione l'impatto è stato molto forte: mille lire equivalgono a un euro, poiché 4 milioni di soggetti hanno stabilito autonomamente i prezzi e il passaggio non è stato governato con precisione. Quando ho cominciato a parlare di Cina nelle sedi internazionali sono stato preso per pazzo ma intendevo una cosa molto semplice: se cresce al 9% l'economia della Thailandia è un fantastico fatto economico, se cresce al 9% l'economia di un Paese che ha un miliardo e 300 milioni di abitanti vuole semplicemente dire che sta cambiando la velocità del mondo e l'impatto che si ha ora in Italia, che ha una simile struttura produttiva basata su una forte intensità di manodopera e una bassa intensità di capitale, prima o poi ci sarà anche nei Paesi che hanno strutture produttive più sofisticate, con maggiore capitale e di tecnologia. Questi due fatti cumulati hanno prodotto una situazione di crisi continentale che si manifesta poi nello spirito dei tempi. Dobbiamo cercare di agire sul fronte della politica. E’ successo invece che negli ultimi anni l'Europa non ha fatto quello che forse avrebbe potuto fare e ha fatto quello che forse avrebbe potuto evitare. In questa fase di apertura del continente alla concorrenza mondiale si poteva ad esempio creare il brevetto europeo. Se è vero che sviluppo è tecnologia, il brevetto è il meccanismo di protezione e valorizzazione della tecnologia, ma a causa di discussioni sulle traduzioni non abbiamo il brevetto europeo e così il marchio europeo è falsificato: non vuoi dire Comunità Europea ma China Export, marchio registrato da un public body cinese. Non abbiamo fatto una sufficiente azione anticontraffazione anche se abbiamo una efficace azione di contrasto doganale. C'è bisogno di una governance europea dal momento che i vecchi Stati hanno trasferito quote crescenti di sovranità nazionale a una macchina europea non è ancora efficiente considerando anche l'impasse della macchina politica prodotto dall'allargamento».
Quale è il ruolo della sussidiarietà orizzontale (diversa dalla devolution e dalla sussidiarietà verticale)?
Salvati: «In linea di principio per la sussidiarietà la distinzione fra verticale e orizzontale è nota: quella verticale riguarda la ripartizione di funzioni pubbliche nei diversi livelli di autonomie territoriali; quella orizzontale riguarda la distinzione fra funzioni pubbliche e private. Una volta distinto fra pubblico e privato dobbiamo distinguere tra la provvista attraverso il mercato e la provvista attraverso modelli associativi non a scopo di lucro. Se non mi sbaglio vi collocate su questa seconda strada e polemizzate sia contro gli statalisti da sia contro i liberisti estremi. C'è chi ha delle fortissime predilezioni stataliste per cui aprioristicamente dice che nel welfare ci sono diritti che tutti devono vedersi attribuiti e l'unico modo di farlo è attraverso un sistema uniforme e comune organizzato dal pubblico. Ci sono invece delle predilezioni liberiste e mercatistiche per cui ci si fida soltanto dell'impresa. Ci sono poi le predilezioni solidaristiche di privato sociale in cui si cerca di stimolare l'iniziativa dei cittadini e dei corpi associativi intermedi. La mia opinione è che queste tre posizioni in astratto e dialoghi. Dall'11 settembre alle derive prodotte dall'entrata dell'euro, fino alla concorrenza incalzante della Cina: faccia a faccia fra due economisti ideologicamente litigheranno sempre soprattutto sui confini. La ragione di fondo è che queste tre forme archetipe hanno vantaggi e svantaggi. Per cui occorrerebbe saper affrontare la situazione uscendo dalle predilezioni molto generali e ideologiche per affrontare il problema nel dettaglio».
Tremonti: «Come declinare solidarietà e sussidiarietà? Prendo ad esempio la riforma delle pensioni. Nessuno fa la riforma delle pensioni per prendere voti ma perché ha una responsabilità. La discussione era sui grandi numeri che non sono di destra né di sinistra ma oggettivi; si tratta dell'età della popolazione, la demografia e la tecnologia. L'andamento demografico è impressionante, mai nella storia dell'umanità è avvenuto un processo di questa intensità e con questa velocità. Ma la tecnologia? Quello che mi ha sempre impressionato è che in questi decenni la tecnologia si è sviluppata poco: una nave è uguale a una nave di 50 anni fa, un'auto è uguale a un'auto di 50 anni fa, in un aereo e in un treno la qualità è enormemente migliorata, i prezzi sono cambiati ma le cose sono rimaste uguali. Dove è improvvisamente verticale? È la tecnologia per l'uomo o al servizio dell'uomo. Allora la sfida è non solo quella di una popolazione che cresce di età ma anche quella di una tecnologia che modifica le condizioni e le aspettative di vita e quindi, per questa combinazione, i costi del welfare state sono straordinariamente elevati, ponendo ai governi scelte drammatiche, di vita o di morte. Avrei una proposta che si colloca a metà tra lo stato sociale costruito in forma pubblica e lo stato sociale costruito in forma contrattuale: il secondo 8 per mille per il volontariato, per il non profit e per la ricerca. Milioni di soggetti lavorano nelle 250 mila organizzazioni non profit e quello che impressiona è che la società restituisce in termini di impegno civile, gratuito, passionale, volontario quello che lo Stato garantisce in termini legali».
Quale strada deve percorrere l'economia e quale la politica economica?
Salvati: «I problema vero dell'Europa è la mancanza di una politica economica tale da poterne fare una grande potenza geopolitica e economica mondiale. Si ha una politica monetaria comunitaria sovrapposta a una politica fiscale che invece è strettamente locale. Se vogliamo fare un paragone, anche se profondamente viziato, tra Europa e Stati Uniti dobbiamo tener presente che l'America ha una politica fiscale e di spesa totalmente accentrata e decisa di comune. Noi invece siamo incatenati da una moneta comune senza avere una comune politica fiscale ma se lasciamo il potere nelle mani degli Stati nazionali non possiamo lamentarci più di tanto».
Tremonti: «Ricordo che quando si iniziò la discussione sulla riforma del patto di stabilità e crescita, i tedeschi volevano inserire tra i criteri anche l'unificazione e io mi opposi perché a quel punto avrei dovuto inserire il costo che ha avuto per noi il crollo del muro di Berlino, il debito pubblico. Occorre riconoscere quindi che il debito italiano, come tutti i grandi debiti, è un prodotto politico e non economico. Il nostro debito deriva anche dalla struttura politica del Paese che non ha avuto alternanza per oltre mezzo secolo mentre tutti gli altri Paesi hanno avuto meccanismi di alternanza e quindi di conoscenza e di reciproca tolleranza. Questo è il dato fondamentale».