«Ora voterei contro la mia riforma elettorale»
Quando la situazione delle estenuanti trattative sui subemendamenti soppressivi degli emendamenti precipita; quando la Casa delle libertà sceglie di cambiare quartiere rispetto al teatrino del tira e molla sulla legge elettorale; quando il centrodestra fischiala fine di una partita ingiocabile perché siamo già in piena campagna elettorale, allora torna di moda la legge Urbani-Tremonti.
Quando la situazione delle estenuanti trattative sui subemendamenti soppressivi degli emendamenti precipita; quando la Casa delle libertà sceglie di cambiare quartiere rispetto al teatrino del tira e molla sulla legge elettorale; quando il centrodestra fischiala fine di una partita ingiocabile perché siamo già in piena campagna elettorale, allora torna di moda la legge Urbani-Tremonti. I Mastella-boys la agitano come fosse il loro modello ideale, i socialisti di osservanza boselliana la auspicano, il ministro delle Riforme Antonio Maccanico la rispolvera. Ma Giulio Tremonti, ex ministro delle Finanze del governo Berlusconi e consigliere di ogni programma azzurro, boccia per primo la «sua» creatura.
Onorevole Tremonti, il centro-sinistra cita, provocatoriamente, la vostra legge. Se la portassero in aula, la voterebbe?
«Assolutamente no...».
E allora perché l'ha presentata?
«Mi lasci spiegare. La mia è una bocciatura preliminare, che prescinde dal merito della legge e parte da tre presupposti: primo, non si cambia la legge elettorale a colpi di maggioranza; secondo, non si cambiano le regole quando la campagna elettorale è già iniziata; terzo, quel modello senza il cancellierato renderebbe ancor più instabile il nostro sistema, già fortemente instabile. Se una parte della maggioranza pensa di andare avanti con questo testo, non si avrà il cancellierato, ma solo il caos».
Ve ne accorgete soltanto ora?
«Assolutamente no, era già tutto spiegato nella relazione introduttiva al nostro progetto di legge, quasi un saggio di cui vado molto orgoglioso, mentre il testo vero e proprio con gli articoli è piuttosto tecnico».
Che si dice in quella relazione introduttiva?
«Si cita Maritain...».
Bello, così come è avvincente l'esposizione, scritta in un italiano ottimo e a tratti persino divertente, ma che c'entra con i modelli elettorali?
«Citavamo Maritain per dire che la nostra proposta era solo uno spunto per aprire la discussione, quasi un pamphlet il cui senso era quello di superare il dogmatismo del maggioritario, contro l'idea dominante che portava avanti l'idea del maggioritario come l'unico strumento democratico, mentre il proporzionale era presentato come un regresso verso un torbido passato».
Tutte idee sacrosante, ma era proprio necessario presentare un pamphlet sotto forma di testo legislativo?
La nostra bozza è servita ad aprire la discussione, ma necessitava di alcuni complementi: il cancellierato, ovviamente, ma anche la capacità - che io e Urbani, professoralmente non avevamo avuto - di prevedere che la genetica-politica italiana avrebbe studiato un modo per inventarsi aggregazioni artificiali per superare la soglia di sbarramento del cinque per cento, come quelle che stanno nascendo nel centrosinistra in questi giorni».
Insomma, non si è pentito di aver presentato quella legge che ora viene rinfacciata a Berlusconi?
«Visto che il centrosinistra parla della Casa delle libertà come di una struttura che ha un solo padrone, il solo fatto che non ci fosse la firma di Berlusconi, significa che la Casa delle libertà non c'entrava nulla con il nostro progetto. Scherzi a parte, ribadisco che il nostro era uno spunto di discussione, scritto da professori. Le regionali e il referendum hanno impedito che se ne discutesse seriamente a livello politico».