Giulio Tremonti



Rassegna Stampa

- Roma

Tremonti: l’Italia è un Paese da smantellare e rifondare

L'ex ministro delle Finanze getta le basi per una grande riforma liberale e federalista

ROMA. Tatarella e Diaconale hanno aperto le danze, il Roma e l’Opinione hanno aperto le loro pagine a un dibattito “oltre il Polo”, è nato anche il primo comitato per la cultura dell’alternativa. Il filo conduttore degli interventi “oltre il Polo” è stata la parola “libertà”. Libertà dall’ambiguo abbraccio cattocomunista, dallo statalismo, dalla mortificazione delle realtà locali e delle libertà individuali. E’ il momento di pensare a una base di programma su cui discutere. E siccome l’on. Giulio Tremonti, già ministro delle Finanze, nel volume “Lo stato criminogeno” ha cercato di disegnare un programma seguendo proprio queste coordinate, abbiamo ascoltato le sue proposte.
OLTRE LO STATALISMO.
On. Tremonti, il dominio politico della sinistra ha portato allo statalismo. Non crede che l’alternativa alla sinistra debba mirare innanzitutto ad un dimagrimento dello Stato?

“Certamente. Oggi lo Stato con la forza delle sue leggi domina le forme dell’esistente. Il cittadino si è smarrito nel labirinto legislativo. Si è arrivati al punto che una legge punisce con l’arresto chi pesca una lumachina di taglia inferiore ai 20 millimetri”.
L’orientamento liberale dello Stato borghese sempre capovolto.
“Infatti. La formula liberale originaria “tutto è libero tranne ciò che è vietato” si è rovesciata nel suo opposto: il dominio dei divieti sulle libertà”.
OLTRE IL RICATTO FISCALE
Anche il fisco è diventato un labirinto kafkiano.

“A titolo indicativo, per un artigiano, lo scenario è il seguente: 292 voci tra tasse, paratasse, concessioni a pagamento, eccetera. Da 60 a 100 scadenze l’anno, almeno tre diversi sportelli di pagamento, almeno un pagamento ogni 11 giorni. Inoltre le dichiarazioni evocano il meccanismo rituale della confessione, ma il fisco pretende dati di cui già dispone. Non lo fa solo per cialtroneria, per trasferire sui privati il costo delle sue inefficienze, ma anche per inviare un messaggio di occhiuta, incombente presenza, essenziale nella meccanica del controllo psicologico delle masse”.
Il modello statalista cerca insomma di ingabbiare la realtà in ogni sua forma.
“Infatti. Nel modello liberale la legge regola moderatamente la realtà. In quello statalista, la legge regola la realtà in modo capillare ed opprime la libertà individuale. Nel momento presente l’Italia non è uno Stato che possiede una legislazione ma una legislazione che possiede uno Stato”.
Lei connette questo “integralismo giuridico” al forte debito pubblico che, storicamente, ha caratterizzato dovunque l’avvento delle sinistre al governo.
“E’ accaduto che il debito pubblico ha finanziato e perciò consentito lo sviluppo abnorme dello Stato che, a sua volta, si è espresso in forme crescenti di “integralismo giuridico”.
E tutto questo si è ritorto contro i lavoratori che la sinistra diceva di difendere.
“Pensiamo al costo del lavoro: è eccessivo perché la funzione previdenziale ed assistenziale, gestita dallo Stato, introduce nella struttura del costo del lavoro una voce di costo addizionale proibitiva. Per converso, la gestione previdenziale e assistenziale pubblica costa sempre di più, perché non si assumono lavoratori. Così scatta la trappola: non si assumono lavoratori, perché costa troppo; costa troppo, perché non si assumono lavoratori. Prima, per le masse, c’era tanto lavoro e pochi diritti. Ora ci sono tanti diritti ma poco lavoro”.
OLTRE LA LEGGE: IL CONTRATTO
Immaginiamo di ritornare alla formula liberale originaria: “Tutto è libero tranne ciò che è vietato”. Qual è lo strumento migliore per regolare la realtà?

“Il contratto. Per liberarci della manomorta esercitata dalle burocrazie è essenziale una nuova politica legislativa: occorre spazzare via il sistema dei vincoli. Il campo dei divieti deve essere limitato all’ordine pubblico. Tutte le leggi finora vigenti devono essere abrogate, per essere sostituite da codici”.
Quindi anche per il lavoro Lei immagina una liberalizzazione dei contratti.
“Certo. La legge deve vietare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma non può impedire a un giovane maggiorenne di contrattare liberamente e responsabilmente il suo lavoro e il suo salario. Solo lui sa infatti cosa è davvero nel suo interesse: se è meglio marcire a casa o – come apprendista – imparare un mestiere. Non lo sa certo meglio di lui un “burocrate del lavoro” che, per suo conto, il posto fisso ce l’ha già. In realtà il meccanismo burosindacale garantisce il lavoro a chi ce l’ha già (fino a che ce l’ha) e garantisce la disoccupazione a tutti gli altri”.
OLTRE LE FALSE PRIVATIZZAZIONI
Meno Stato nell’economia significa anche privatizzazioni. Quelle fatte finora Le sembrano autentiche?

“Finora le privatizzazioni sono state finte o parziali. In molti casi l’azienda pubblica è divenuta una Spa, ma la proprietà è rimasta pubblica. In altri casi la proprietà è divenuta privata ma la nomina dei manager è rimasta pubblica. Ebbene: lo Stato deve cedere subito e in blocco tutte le sue partecipazioni in società per azioni. Il Tesoro prenderebbe forse di meno in termini di plusvalenze, ma il Paese prenderebbe di più in termini di efficienza, morale, fiducia”.
Lo Stato possiede anche un enorme patrimonio immobiliare. Anche questo può essere alienato?
“La finora confusa discussione in corso sul federalismo può essere anticipata da un passaggio istantaneo. Da subito il federalismo può prendere corpo, ribaltando lo storico processo di centralizzazione patrimoniale che ha caratterizzato il nostro Paese. Il demanio statale (un complesso pari a circa 627 milioni di metri quadri di terreni, fabbricati di inestimabile valore ma oggi in completo abbandono) va sdemanializzato. I castelli, i palazzi, le foreste, le terme, le spiagge, tutti i beni immobili in mano statale devono tornare, al prezzo simbolico di una lira, ai Comuni dove si trovano fisicamente. Solo qui, infatti, e non da Roma, i beni possono essere gestiti e valorizzati, con efficienza, da parte delle comunità economiche locali".
OLTRE IL FEDERALISMO A PAROLE
Troppe decisioni dipendono dal centro. Come invertire la tendenza?

“Si deve fare a livello di Comune tutto ciò che si può fare bene a livello di Comune. E si deve risalire di livello (dal Comune alla Regione, dalla Regione allo Stato, dallo Stato all'Unione Europea) solo se, al livello superiore, si può fare ancora meglio. Mezzo essenziale di questo necessario cambiamento è una riforma fiscale”.
Qual è il modello di federalismo fiscale praticabile in Italia?
“Occorre partire dal municipalisimo, coerentemente con la storia italiana, con la dottrina sociale della Chiesa e con Maastricht, e quindi col principio di sussidiarietà. Come nel modello fiscale tedesco, i tributi locali devono essere riscossi in loco e destinati a finanziare le opere locali. I tributi statali vengono invece riscossi dallo Stato che li destina a tre usi essenziali: per esistere (ad esempio, la difesa); per restituzione (sulla base di parametri statistici che misurano la ricchezza prodotta e scambiate nelle varie aree, cui tornano le rispettive imposte); per solidarietà (ad esempio, se un Comune meridionale ha bisogno di un acquedotto che costa cento e i tributi locali fruttano solo 50, i 50 residui sono trasferiti dallo Stato a titolo di solidarietà”.