Giulio Tremonti



Rassegna Stampa

- Il Mondo

Non è nei paradisi la cura per il fisco

Componendo questo numero di telefono: 004417127011234 (è il numero di Downing Street, dove abita Tony Blair), si può ottenere qualche informazione utile in ordine a uno dei principali attuali dilemmi politici europei: il dilemma fiscale.
In Europa abbiamo un mercato, una moneta, 15 (o 11) diversi sistemi fiscali. È un assetto fisiologico o patologico? Se uno pensa all’euro, non come a una vera moneta, ma solo come parametro monetario, con bassa o nulla cifra politica, l’assetto attuale è fisiologico. Se invece si pensa che l’euro debba o possa essere una vera moneta, l’assetto attuale è patologico. E va conseguentemente modificato. La maggioranza degli Stati europei e dell’opinione pubblica si è espressa, e si esprime, specificatamente in questo senso. Il problema, insieme politico e tecnico non è dunque se fare l’armonizzazione fiscale europea, ma come farla. Con quali strumenti, con quali tempi, su quali livelli di prelievo. Schematicamente, si confrontano due ipotesi estreme opposte.
Un’ipotesi dirigista: l’armonizzazione si fa dal centro (Bruxelles) e via direttive (comunitarie). Un’ipotesi mercatista: l’armonizzazione non la fa la politica, la fa il mercato, l’unico soggetto che è progressivamente capace di baricentrarsi usl punto ottimo di pressione fiscale. La prima ipotesi ha un evidente punto di debolezza: presuppone l’unanimità difficilmente raggiungibile. La seconda ipotesi ha un apparente punto di forza, nel criterio costituzionale della sussidiaretà. Sotto il vincolo quantitativo imposto a livello di bilancio dal Patto di stabilità, ogni Stato sarebbe infatti libero di definire il mix qualitativo delle sue scelte fiscali. Per esempio, sarebbe libero di attrarre capitali in aree ad altà intensità di lavoro. Suggestiva in astratto, questa tesi è però insufficiente sul piano politico. La moneta unica presuppone infatti, rispetto a quella implicita nel patto di stabilità, un’ulteriore riduzione dell’autonomia fiscale, al servizio del comune interesse monetario. Perché nel durante, in attesa che l’armonizzazione fiscale faccia il mercato (e ammesso che la si voglia far fare solo dal mercato), un eccesso di differenziali fiscali il cui ruolo strategico cresce a fronte della scomparsa degli altri differenziali (di cambio di interesse di inflazione) è la negazione stessa dell’unità monetaria. In sostanza, ciò comporta il superamente del Trattato di Roma. Il Trattato di Roma regola la materia in forma minima, in base a tre scelte essenziali:
1) Armonizzazione limitata alle forme di imposizione (IVA e accise) ritenute basicamente necessarie per fare il mercato (altrimenti non realizzabile), ma comunque dotata di una bassa cifra politica;
2) Riserva della sovranità fiscale originaria degli Stati delle altre forme di imposizione (soprattutto dell’imposizione diretta), ritenute non essenziali per fare il mercato e comunque dotate della più alta cifra politica;
3) Blocco di questo sistem, sotto la clausola dell’umanità.
Il Trattato di Maastricht presuppone invece un maggiore grado di armonizzazione fiscale. Il problema politico è dunque quello di trovare un punto di equilibrio tra i due trattati. In questo scenario, di alternativa ancora aperta, la riflessione va concentrata su alcuni punti essenziali:
a) Per quanto siano corrette, e perciò da condividere, le politiche comunitarie di moral suasion e di guerra ai paradisi fiscali, la questione non si esaurisce certo nella repressione della devianza o nel contrasto dell’artificialità dei paradisi.
Le aree e/o i territori più fortemente interessati nella (o dalla) competizione fiscale hanno infatti uno spessore sociale, economico, politico molto maggiore dei paradisi (che certo possono e/o devono essere contrastati): sono Amsterdam, Dublino, Lussemburgo, Londra, Belgio, Galles, Catalogna, ecc.
Aree e/o territori la cui fiscalità differenziale viene appunto politicamente giustificata e difesa in base al principio della sussidiarietà;
b) Per quanto riguarda specificatamente la fiscalità finanziaria, se è vero che l’Europa è più grande dei singoli Stati che la compongono, è però anche e soprattutto vero che l’Europa è solo un luogo del mondo. Conseguentemente, una fiscalità locale europea, magari conforme agli standard politici interni, ma non conforme a quelli mondiali (nel mondo, i capitali tendono in specie a circolare in forma apolide e irresponsabile), può produrre vastissimi effetti di migrazione di capitali, e conseguentemente travasi di potere, da Londra (e Francoforte) verso New York e il Far East. La questione non è infatti, e tanto, di competizione fiscale Europa su Europa, ma di competizione Europa versus mondo. L’ipotizzata euro-ritenuta del 20% sui titoli è oggettivamente troppo alta e perciò suicida. Con questo livello di ritenuta l’Europa non sarebbe un luogo di attrazione ma di dispersione dei capitali. Il problema non è infatti di convincere i mercati. È in questi termini che si pone il dilemma fiscale europeo: tra moneta e competizione.