Giulio Tremonti



Rassegna Stampa

- Il Giornale

La tigre della modernità

Dopo un secolo, la tigre della modernità corre di nuovo e più forte che mai. Non corre da sola. Corre tra di noi e dentro di noi. Corre dentro la nostra vita.

Dopo un secolo, la tigre della modernità corre di nuovo e più forte che mai. Non corre da sola. Corre tra di noi e dentro di noi. Corre dentro la nostra vita. La tigre della modernità prende per cominiciare la forma transgenica e chimerica della biotecnologia. Dalla cornucopia dell’ingegneria genetica, che sintetizza geni e computer, stanno infatti per uscire nuove specie animali e vegetali, cloni, bestie, uomini, piante, frutti artificiali, metamorfizzati, ingegnerizzati e normalizzati per il consumo. Tutti coerenti al modello di un mondo consumabile e rinnovabile, in cui vita e merce si identificano specularmente. Un modello in cui la vita è merce e la merce è vita. Se non è la fine della natura, è il superamento della natura.
La prova che questa cascata di fenomeni si sta realizzando, la prova che la tigre della modernità sta uscendo dal gelo dei laboratori per entrare nel caldo della vita, viene da due luoghi simbolici della nuova frontiera americana: Wall Street e Seattle. I rumori che annunciano la «modernità» vengono in specie dalla finanza (c’era da dubitarne?) e dalla politica di piazza e di strada, luddista, e dunque dalla politica vera.
La grande industria chimica e farmaceutica si sta ristrutturando. Esce dai settori maturi, dalla petrolchimica e dalla cosmetica, per concentrarsi strategicamente sul nuovo. Lo stesso processo di conversione e concentrazione è visibile nel gigante mondiale dell’informatica. Le telecomunicazioni non sono un settore maturo. Ma il nuovo è previsto oltre, nel dominio della biotecnica servita dai computer. Non solo. La lista delle imprese «venture» che si presentano a Wall Street si allunga ogni giorno. Segno che servono nuovi capitali, segno che c’è una realistica aspettativa di profitti di ritorno. La piazza e la strada di Seattle non sono poi la fine, ma il principio di un nuovo scenario politico. La ristrutturazione della politica futura, fuori dal vecchio schema destra-sinistra, l’avevamo segnalata il 19-novembre, prima dei fatti di Seattle, sul Giornale. Riflettiamo ancora, sulla cifra morale e politica della «modernità» in atto. Per farlo, cominciamo a definire il campo della «modernità». Un campo che non si limita alle biotecnologie, perché sopra le biotecnologie – che manipolano la natura – si chiude il dominio ancora più misterioso e incontrollabile del virtuale. È perché sotto c’è la terrestre devastazione della natura. Nello scenario di una modernità, così costituita, il catalogo dei problemi morali e politici nuovi, che devono essere fronteggiati, può essere formulato nei segutenti termini.
a) Nella biotecnologia la «materia prima» è la struttura genetica, la base profonda della vita, ormai ricostruita, mappata e archiviata dai computer. In questi termini, a lato delle fondamentali questioni morali relative alla «legittimità» dei processi scientifici di manipolazione genetica, si pone una altrettanto fondamentale questione politica ed economica. Di chi è la mappa genetica? È di Dio (o, più laicamente, è proprietà collettiva dell’umanità) o delle multinazionali? È di chi l’ha creata o di chi l’ha mappata, per sfruttarla commercialmente? È un bene privato o un bene pubblico? In sintesi, è lecito il G.commerce? Ritorna dunque, in forma nuova e drammatica, il dilemma storico della proprietà. Il «brevetto», forma simbolica della proprietà intellettuale, può estendere il suo campo convenzionale di applicazione e di protezione fino a comprendere la «mappa genetica»? Per millenni si è convenzionalmente accettato che una data quantità di grano, di ferro, di petrolio, entrasse nel dominio di chi la gestiva fisicamente. Ma nessuno possedeva «il» grano, «il» ferro, «il» petrolio. La questione dei geni si presenta invece in termini assoluti: o tutto o niente. È su questa frontiera che, all’interno del dilemma tra progresso e profitto, si pone dunque e di nuovo lo scontro sulla proprietà. Se il motore della ricerca è il profitto, quanto di profitto fatto con il G.commerce è giusto? E poi qual è il nuovo punto di equilibrio tra progresso e profitto? E chi lo stabilisce: il mercato o la legge? E quale legge, in un mondo in cui la legge è essenzialmente statale, e perciò «locale», e dunque debole, dato che la realtà globale è mossa da forza che la spingono fuori dagli antichi confini statali?
b) La frontiera della modernità non si ferma qui. Il movimento in atto va infatti molto oltre. Perché la virtualità sta superando la realtà. Non solo la natura è artificialmente manipolata con la biotecnologia, ma è affiancata e superata dall’informatica. Non solo il virtuale è ormai a pieno titolo un pezzo della realtà ma, nel mondo dei computer, il mondo reale sta perdendo quota, confondendosi sistematicamente con il mondo virtuale. È un mondo in cui si stanno ibridando e confondendo il reale e l’artificiale, i beni e i servizi, l’interno e l’esterno, il presente e il passato. Si può «navigare» nel passato. Per esempio, si può navigare nell’antica Roma. Gli artisti, con la loro sensibilità, hanno captato, intuito, anticipato la modernità. È, modernamente, il caso dei film sul mondo informatico. È, a esempio, il caso di «Matrix». I computer non si limitano infatti ad azzerare il tempo, come ci si fa notare a proposito dei collegamenti universali, ormai possibili «just in time». Ma vanno molto oltre: ricreano il tempo. È lo stesso meccanismo mentale che si sta sviluppando. Il sistema a scatti dei numeri viene progressivamente sostituito dal sistema continuo dei punti. È il «mouse» del computer, che simbolizza il nuovo passaggio filosofio dai numeri ai punti. Nel nuovo universo convenzionale continuo si può (se si vuole) estremizzare, arrivando a teorizzare l’identificazione dell’anima con un «software». In ogni cacso, quello virtuale è un dominio in cui si allentano le vecchie catene politiche e morali. I beni virtuali non sono infatti più fisicamente «beni di Dio», perché sono creati direttamente dall’uomo. Il collegamento a Dio di questo universo di nuovi beni presuppone una «cifra» di fede più elevata di quella necessaria per riportare a Dio i vecchi beni fisici, sfruttati ma non creati dall’uomo. E non è solo una questione morale. È anche una questione politica. Una questione di titoli di proprietà, di controlli, di doveri fiscali, necessari per un’architettura di civile convivenza. Date le sue origini, le sue funzioni e le sue dimensioni, questo tipo di nuovo capitalismo tende infatti ad assumere uno status di anarchia e di apolidia, di egoismo e di «turismo permanente», di refrattarietà ai tradizionali doveri politici. Ma non è vero quello che scriveva Karl Marx, che l’«egoismo si trova bene dappertutto». Questo assetto genererà conflitti e postulerà soluzioni politiche positive. L’alternativa è in specie tra il mito positivo di Prometeo, l’uomo creatore, e il mito negativo di Lucifero, l’angelo che si pretende Dio.
c) Per converso, precipitando dall’alto verso il basso, è sempre più chiaro che il «vecchio» mondo reale si sta deteriorando nella sua struttura climatica fondamentale. A causa del progresso, mezzo mondo sta infatti diventando «temperato», l’altro mezzo si sta surriscaldando. Il deterioramento del mondo reale prospetta lo scenario ipotetico di una nuova Atlantide e, nel durante, attiva un colossale problema della ricchezza, tra popoli che ci guadagnano e popoli che ci perdono. Se fosse possibile una separazione del mondo per aree, si dovrebbe infatti assumere che i ricchi del nord destinato a diventare temperato saranno ancora più ricchi, mentre i poveri del sud equatorizzato sono destinati a diventare ancora più poveri. In questo scenario, quali ipotesi politiche positive sono configurabili? Per secoli realtà e politica si sono identificate. Ora non è più così. Ora la realtà è fuori dalla politica, come è stato nelle età più remote e più buie. Si può accettare questo assetto o lo si può rifiutare. La civiltà postula il rifiuto. Il rifiuto postula lo spostamento dell’orizzonte la politica futura, o è globale o non è. Lo Stato non basta più, è ancora necessario ma non è più sufficiente. La scelta del tipo di scienza, o del controllo sul processo e indirizzo della ricerca scientifica, se «soft» o «hard». L’arbitraggio e la bilancia dei poteri e delle risorse che sono oggetto del processo di creazione-distruzione in atto. L’ipotesi di procedere per esperimenti, per esempio creando un Fondo comune che acquisti dalle multinazionali i nuovi «prodotti», per ridistribuirli. Ancora, l’introduzione di forme nuove di tassazione mondiale, che non può certo essere un mezzo per «creare» competenze politiche mondiali, come è oggetto di diffusa credenza, ma piuttosto un modo per finanziare competenze di questo tipo, una volta che si sono create e dunque un «posterius» e non il «prius».
Sono, tutti questi, materiali non solo di riflessione filosofica necessaria, ma di azione politica già da ora possibile. Sono, tutti questi, i veri temi morali e perciò politici. Su questi temi, la Chiesa è presente. La politica è quasi assente. Non solo in Italia, la politica del Palazzo nel Palazzo, per il Palazzo, è tragicamente e domesticamente fuori dal circuito della «modernità». Ed è, questa, la forma principale dell’accidia politica che, per carenza di orizzonti e di visioni, ha prima segnato il declino della vecchia politica nell’età del «disincanto», e ora marca la sua fine nell’età incombente di una nuova angoscia «esistenziale». Chi scrive deve una parte di queste riflessioni a Umberto Bossi.