«Calano le tasse? Illusione Istat»
Tremonti: «Cambia la contabilità, non il carico sul contribuente»
«L’Istat dice che la pressione fiscale scende? Dipende dai punti di vista. Sicuramente non da quello del portafoglio del cittadino». L’ironia è evidente nel commento di Giulio Tremonti, autore della rivoluzione fiscale presentata oggi al Tax day di Verona da Silvio Berlusconi, alle ottimistiche cifre snocciolate alla vigilia dell’istituto di statistica: la pressione fiscale, calcolata col nuovo sistema europeo SEC95, sarebbe calata dal 44,7% del ’97 al 43,2%, 0,4 punti percentuali in meno rispetto ai dati precedenti – 43,6% del pil – basati sul sistema SEC79. Insomma, la pressione sembrerebbe calare, come ripete anche il ministro delle Finanze, Vincenzo Visco.
Lei non è d’accordo con questo dato, professor Tremonti?
«Dal punto di vista del contribuente non ci sono indicazioni di una riduzione della pressione fiscale. O almeno io non ne ho: mi mostri il governo chi sono i cittadini che hanno pagato meno tasse, ma che siano casi reali. Non c’è più l’eurotassa, è vero, in compenso è arrivata una serie di nuove addizionali. Certo, dal punto di vista generale la riduzione c’è stata, ma puramente contabile».
Che significa?
«Anzitutto, sono venute meno moltissime entrate una tantum – irripetibili per loro natura – a carico del settore pubblico: dalla Banca d’Italia all’Ufficio italiano cambi, dalle Ferrovie alle anticipazioni sull’Iva su forniture pubbliche. O, per fare un altro esempio, l’obbligo imposto alle esattorie di fare trasferimenti all’erario. Poi c’è la questione dell’imposta sostitutiva sugli interessi dei titoli pubblici: che è calata, è vero, ma non perché si è ridotta la ritenuta, bensì perché sono scesi gli interessi. Insomma, la presunta riduzione della pressione fiscale riguarda solamente i conti pubblici, non le tasche dei privati. Anche perché bisogna pur dire che, introducendo come si è fatto un diverso metodo di calcolo “europeo”, si sono rotte le serie statistiche che, a mio parere, è diventato impossibile istituire i confronti con il passato».
Il peso del fisco, quindi, è rimasto quanto meno invariato?
«Direi di sì. L’unico buco è quello dell’Irap: ma è un buco, appunto, non uno sgravio, che è cosa ben diversa. Tant’è vero che l’imposta era stata votata a parità di gettito. Il che non è avvenuto solo perché il governo ha sbagliato le previsioni, non perché volesse essere generoso. I benefici fiscali alle imprese si realizzano in modo ben diverso: vanno preparati e annunciati, anche per creare un clima economico di fiducia. Invece questo è stato un incidente, un errore, e come tale ha effetti irrazionali, premiando o punendo senza motivo l’una o l’altra azienda».
Non sono state favorite le più «meritevoli», sembra di capire.
«La struttura dell’Irap è nota: ha una base imponibile formata dall’utile di bilancio, più il costo del lavoro, più il costo del denaro. Di conseguenza, favorisce le imprese con molti utili, poco personale – e magari tante macchine – e pochi debiti. Mentre danneggia le aziende indebitate, che danno lavoro a molta gente e non hanno grandi capitali. Il che significa che i benefici (non voluti) sono andati ad holding, finanziarie, grandi industrie, mentre a livello di ‘capannone’ si è visto ben poco. Anzi, si sono avuti dei ‘malefici’, per così dire».
Ma in quale percentuale, è possibile saperlo?
«No, è proprio questo è un altro aspetto da considerare, cioè il blackout sull’Irap e sui suoi effetti. Il Parlamento sta appunto studiando questo argomento, ma se ne sa ben poco. Conosciamo solo il gettito dell’imposta, con relativo buco superiore alle previsioni, ma non chi, fra le aziende, ci ha guadagnato e chi ci ha perso».